La ripresa, finalmente, sembra essersi messa in movimento. I principali dati del 2021 mostrano che il Pil mondiale cresce così come avviene nelle principali economie avanzate. L’Italia appartiene al gruppo di testa, con incrementi davvero importanti del Pil salito del 6,5%, del saldo con l’estero in attivo record nonostante il peso delle importazioni e persino dell’occupazione che, per la prima volta, da tempo, cresce. Ma tutto ciò avviene in un contesto minato dall’imprevedibilità della pandemia e da una serie di incertezze sul futuro dell’economia.
La principale serie di dubbi è suscitata dall’impennata dell’inflazione. Se, entro certi limiti attorno al 2%, essa era attesa come effetto dell’accresciuta necessità di materie prime per la ripresa della produzione in tutti i settori, per scongiurare cioè il timore che ci si fermasse ad un semplice rimbalzo tecnico senza che si avviasse un nuovo ciclo di crescita, la dimensione degli incrementi induce a ritenere che un’inflazione più elevata, almeno per un certo periodo (un anno o due?) sia inevitabile.
Nel caso in cui questa tendenza fosse confermata bisogna disporre di strumenti di contrasto sul piano delle politiche monetarie ed economiche, tenendo conto che l’enorme massa del debito accumulato dagli Stati per fronteggiare i costi della pandemia diverrebbe insostenibile senza una poderosa ripresa economica.
Le riflessioni non mancano e ad esse se ne affiancano altre, in particolare quelle relative alle politiche di “transizione” che l’Ue e gli altri principali Paesi stanno lanciando per accompagnare la crescita e favorire la formazione di un nuovo ciclo economico espansivo per i prossimi decenni sino al 2050. Da noi queste sono contenute negli strumenti come il Pnrr che puntano in particolare sulla transizione digitale, su quella energetica e, per quanto riguarda l’agricoltura, su quella Green. A parte l’osservazione, pedante, che il concetto di transizione prevede di conoscere bene le condizioni da cui si parte e, soprattutto, quelle a cui si vuole arrivare, non è chiaro quali significati concreti vengano attribuiti ad esse e quali conseguenze dirette ed indirette abbiano. Se pensiamo ad esempio a quella energetica ci rendiamo conto che essa è frenata dall’impennata inflativa specie dei prezzi del petrolio e del gas e resa difficile dalla carenza di fonti energetiche continuative e gestibili. Il rallentamento dell’economia fra fine 2021 e inizi 2022 è dovuto all’effetto prezzi (inflazione da costi) ma non solo. I colli di bottiglia, la mancanza di materie prime, semilavorati e prodotti finiti che blocca la catena produttiva, esalta la frenata. Se da un lato non abbiamo previsto nella misura giusta il tasso di inflazione, dall’altro abbiamo sottovalutato questi elementi che pure erano noti e considerati, forse con eccessiva frettolosità.
Per venire all’agricoltura quanto sta accadendo nell’industria manifatturiera per la mancanza dell’energia, ed è esteso ad esempio alla ricaduta sulla componentistica è un segnale preoccupante. Se l’energia, il gas in particolare, ma anche il petrolio, scarseggia mancano anche i più usuali fertilizzanti e antiparassitari. La produzione può crollare, anche se almeno per ora regge. Ma se sommiamo gli effetti delle difficoltà generali alla prospettata transizione del Green Deal le preoccupazioni aumentano
È di questi giorni la diffusione di uno studio di un gruppo di studiosi di Wageningen con conclusioni molto pessimistiche sul futuro dell’agricoltura europea se venisse applicata la linea del Green Deal. Già l’anno scorso uno studio di “Nature” aveva avanzato indicazioni altrettanto preoccupanti e poi in seguito un altro del Centro Comune di ricerca dell’Ue, il Jrc, andavano in questa direzione. Alcuni osservatori, fra i quali anche chi scrive queste note, hanno evidenziato che l’eccezionalità dei tempi avrebbe consigliato e consentito una riflessione maggiore, anche a costo di un’ulteriore proroga della Pac per prevenire le conseguenze negative indicate dagli studi che prevedono un rischio generale di riduzione della produzione e della produttività, della necessità di “asservire” ai mercati dei Paesi Ue e in genere di quelli avanzati enormi aree nel resto del mondo per produrre alimenti, di aumentare le importazioni e di ridurre le esportazioni con ciò facendo crescere il costo delle commodity agricole in tutto il mondo, di esporre i consumatori ad una volatilità dei prezzi agricoli imprevedibile per sua natura e ingestibile a causa della inevitabile contrazione degli stock strategici di prodotti agricoli di cui nessuno parla.
Incurante di tutto ciò, la nuova Pac procede nella definizione di norme in senso contrario alla produzione per un malinteso ambientalismo, perdendosi in cavillose regole applicative che non tengono conto della lezione della pandemia e frenano l’innovazione scientifica e tecnologica in agricoltura, unica soluzione possibile.
Sarebbe meglio allora riflettere, finché si è in tempo, sulle conseguenze a livello mondiale e, nello specifico, europeo di una transizione che non considera tutti gli aspetti del problema della disponibilità di alimenti per una popolazione in crescita numerica e di reddito.