Nel 1970, le terre coltivate (SAU) in Italia erano più di 18 milioni di ettari. Oggi si sono ridotte a meno di 13 milioni. Va aggiunta una ulteriore superficie di terreni agricoli, anche fertili, che gli agricoltori lasciano inutilizzati in quanto non riescono ad offrire redditi. D’altra parte, la nostra produzione agricola non è complessivamente sufficiente a soddisfare le esigenze nazionali ed il nostro Paese è sempre più costretto a colmare le carenze, con forti importazioni. Il Governo Monti ha recentemente approvato e poi già modificato un D.d.L. quadro per “frenare il consumo di terre coltivabili”. Ma non mancano ancora perplessità.
Come già dimostratosi con i criteri adottati per la conservazione del paesaggio agrario, non è né utile né possibile imporre agli agricoltori di coltivare i propri terreni anche quando non riescono più ad ottenerne un reddito. Prima di continuare sulla strada dei vincoli, occorrerebbe promuovere iniziative capaci di aiutare gli agricoltori a ridurre i costi e rendere remunerative le produzioni.
Un effetto del tutto opposto è stato invece determinato dagli attuali provvedimenti fiscali che hanno aggravato la situazione delle imprese agricole con la nuova imposizione patrimoniale IMU sui terreni e il contestuale aumento fiscale sui redditi, attraverso la rivalutazione del 15% dei parametri catastali, nonché con il divieto alle imprese agricole societarie di optare per una tassazione basata sui propri bilanci.
I Georgofili hanno evidenziato l’insostenibilità di queste tassazioni, perché i terreni coltivati sono strumenti che producono reddito da lavoro e non rendita patrimoniale, mentre la tassazione dei redditi è basata su un catasto ormai obsoleto, quindi i presunti redditi sono irreali e determinano ingiuste sperequazioni.
Il “consumo” di terre agricole, così come il loro temporaneo abbandono, sarebbe certamente inferiore se la coltivazione di quei terreni fosse in grado di produrre redditi adeguati e in quel caso giustamente tassabili.
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