Se nei secoli passati l’alimentazione dei contadini era essenzialmente costituita da cereali e legumi, allevare buoi, pecore, maiali, polli e tacchini significava avere sia forza lavoro, concime, materia prima per fabbricarsi abiti e quant’altro, sia potersi concedere qualche volta un piatto a base di carne.
Gli eccessi, tuttavia erano duramente stigmatizzati, riconducendoli addirittura ad una sorta di spregiudicatezza morale non consona alla gente di campagna che dava segno così facendo, di aver perso gli antichi valori e la semplicità e purezza dei costumi.
Giuseppe Giovanni Ippoliti vescovo di Cortona, pur sensibile verso le misere condizioni dei contadini della sua terra, giudicava duramente coloro che in occasione “delle nozze rustiche”, non si accontentavano più “di semplice vitella, e castrati, e capretti, e capponi … del galletto più tenero, del più delicato lattajolo”, ma ricorrevano a cuochi esperti per preparare “a josa … budini, salse, intigoli, ragù”. (Lettera parenetica, morale, economica di un paroco della Val di Chiana, 1774). Identico richiamo veniva anche sul finire del ‘700 da Luigi Fiorilli che si lanciava in una dura invettiva contro il lusso dei contadini ai quali rimproverava di sperperare il denaro nelle botteghe di città per acquistare ghiottonerie quali “mortadella, e prosciutto, e pesce, e salame” e per bere vino al posto di un “frizzante acquerello”. (Sul Lusso dei contadini, 1795)
Fra gli animali allevati, il porco definito dalla saggezza popolare “Il più utile degli animali senza corna e senza ali”, godeva di attenzione particolare, ad iniziare dal luogo ove ospitarlo che abbisognava di una cura specifica causa l’ingordigia, l’aggressività e la scarsa socievolezza dell’animale.
L’architetto Ferdinando Morozzi nel suo trattato sulle case coloniche, quando affrontava il tema degli “annessi” (cantine, forno, granaio, fienile, etc.) raccomandava caldamente di costruire il porcile ben separato dalle altre fabbriche e di articolarlo in tanti “piccolini stanzini” dove ospitare le femmine e i “loro porchetti”. (Delle case de’ contadini, 1770)
“Chi non ha orto e non ammazza porco, tutto l’anno sta a muso torto”, recitava la voce del popolo; per contro: “Chi ha un buon orto, ha un buon porco”; costava poco infatti il mantenimento dell’animale, gli avanzi dell’ orto, un po’ di frutta caduta dagli alberi, ghiande. Se il porco “sognava le ghiande”, l’uomo dal canto suo, pregustava succulente pietanze cadenzate nel tempo: “Porco di un mese, oca di tre, mangiare da re”.
Così ne scriveva in proposito Vitale Magazzini: “Et à luna crescente s’ammaza i porci per insalare, & à detta luna s’insalano … In capo à quindici giorni, ò tre settimane, secondo l’occasione d’vna tramontana, si caua la carne porcina di sale, e s’espone a detta tramontana …; E come è ben suzza, e rasciutta, si tenga otto giorni al fummo … senza ch’ella senta il caldo del fuoco … Però leuata dal fummo è ottimo seppellirla … nel miglio, ò nelle vecce, ò nel grano … E non hauendo niuna delle sopradette, se ne faccia suolo in vn cassone, tramezzandola d’Alloro, ò Mortella … Se gli dia Sale per tutto a sufficienza, ò più tosto d’auanzo … e rimenuandola da ogni banda alquanto, se gli dia sale asciutto … massime li coscetti. E mettendola in su vna tauola … che penda alla china, accioche la salamuoia si vada scolando … Et in questa maniera verrà perfetta”. (Coltivazione toscana, 1669)
Vincenzo Tanara asseriva che il porco se pure lurido animale che si deliziava più d’ogni altro “nell’immondezze” (e per questo “chiamasi il brutto”), forniva una carne gustosa dai “cinquanta sapori” che poteva essere lavorata e cucinata in ogni sua parte: “Fassi vn salame alla Fiorentina di carne magra sola, con dentro vn poco d’odor d’aglio, quale gusta à molti, ma s’asciuga vn poco troppo. E perche dalla fabbrica di dette mortadelle restano molte siuanzi di carne magra, come di grassa, queste ben peste col proporzionato sale di libre sei per cento, e onzie dodeci di pepe, fanno altri salami, quelli in budelle di Vitello per lo quasi ripongono, e si custodiscono come le sopradette mortadelle, e però bene mangiarli presto. Con fegato non molto minutamente pesto, misticati pezzeti d’affugnaresca. Coriando, poco sale, e pepe, se ne fa salame assai buono da mangiarsi di Primauera … Di tutti li suddetti siuanzi, ancora, e quelli, che auanzano dal formare li prosciutti, spalle, panzette, coppe, & altre con l’aggiunta di cuore, e rognoni, non molto ben pesti, con pepe e sale, la metà meno della sopradetta dosa, si fa salcizza, quale col nome porta seco il modo di farla, cioè sale e zizza”.
Del maiale non si buttava via niente e in proposito Tanara così ne scriveva: “Et in fine, accioche cosa alcuna di questo pretioso animale non si getti, si pestano tutte le budella minutissime, & incorporate con sale, e coriando, si fa vn salcizzotto assai buono, per far bollire nella minestra d’herbe”. (L’economia del cittadino in villa, 1687)
Immagine: F. Morozzi, Delle case de’ contadini, 1770