Illegalità, sfruttamento, lavoro nero nelle campagne, caporalato: argomenti caldi che si intrecciano con l’emergenza immigrazione. Fatti di cronaca (alcuni morti in campagna) e inchieste giornalistiche hanno fatto deflagrare il tema, inducendo il Governo ad intervenire. Come sempre in Italia si lavora sull’emergenza con tutte le conseguenze del caso.
Inevitabile cadere nello sport nazionale, la scoperta dell’acqua calda. Intendiamoci: il Governo ha deciso di intervenire con misure straordinarie e ha fatto bene. Più controlli (in Puglia c’erano veri e propri accampamenti di lavoratori in nero, alla luce del sole, con tanto di negozi, dormitori, bar e anche un bordello); dal 1 settembre sarà operativa la "Rete del lavoro agricolo" prima sperimentazione italiana di certificazione della qualità del lavoro con relativa cabina di regia incaricata di redigere un piano d'azione straordinario per la lotta al caporalato; confisca dei patrimoni delle imprese che sfruttano manodopera irregolare, così come per i reati di mafia. Bene, vedremo i risultati di questi interventi.
Non c’è dubbio che qualcosa andava fatto, anche perché lavoro sommerso e caporalato sono un problema per le imprese agricole in regola, che rispettano la legge e i contratti di lavoro. Anche se regole e norme già esistevano, però ce le eravamo ‘dimenticate’. A partire dal Durc, il documento di regolarità contributiva che già esiste. Però per diradare le nebbie dell’ipocrisia su questo argomento diciamo due cose: che il lavoro in nero, specie al Sud, è sempre stato uno strumento per rendere competitivi i prezzi di molte produzioni, che – come noto - non sono determinati dalla parte agricola ma dal combinato disposto tra lo strapotere della Gdo e la frantumazione dell’offerta agricola. Una competitività, va precisato, al ribasso perché tutti – dalle catene della Gdo alle associazioni dei consumatori – vogliono che frutta e verdura costino poco. Infatti, appena i prezzi salgono, tutti strillano.
Poi, seconda osservazione, il fenomeno del lavoro nero nelle campagne era sotto gli occhi di tutti, da anni. Non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere. Adesso ci sono scappati i morti e la tv soffia sul fuoco, quindi si interviene. Però aldilà delle misure repressive, “di polizia” ci sono alcuni rischi da evidenziare. Che le misure proposte non si tramutino in nuovi aggravi burocratici, perché quelli che ci sono già bastano e avanzano. La Cia parla di tracciabilità etica dei prodotti, con tanto di etichetta dove rendere pubblici i prezzi all’origine dei prodotti.
“Senza una giusta remunerazione del prodotto agricolo – dice la Cia - non ci può essere sostenibilità né ambientale, né economica né sociale dell’agricoltura. E’ dimostrato come la corsa al ribasso dei prezzi non giovi proprio a nessun comparto, anche la Grande distribuzione non trae alcun beneficio da tale fenomeno”. L’idea è buona, non so quanto realizzabile, se non su base volontaria.
Il tema dei prezzi è strettamente connesso al tema del lavoro nero e decisivo se vogliamo davvero debellare il fenomeno. Sapere che il chilo di patate che sto comprando a più di un euro è stato pagato in campagna 0,15 al produttore fa riflettere il consumatore sulle storture del mercato agroalimentare nazionale e rende evidente che c’è un sistema che non funziona. Poi tra adesione alla rete del lavoro di qualità e certificazioni etiche, bisogna evitare di caricare di nuovi balzelli e adempimenti le imprese perché poi va a finire come con le certificazioni di qualità, che alle imprese costano e poi non creano neppure un centesimo di valore aggiunto al prodotto. Infine ci sarebbe un modo infallibile per combattere il lavoro nero: meno burocrazia; più flessibilità, regole e forme contrattuali trasparenti e chiare per normare soprattutto le grandi campagne di raccolta; alleggerire i balzelli e gli oneri sul costo del lavoro, tra i più alti d’Europa. In sintesi venire incontro e agevolare il lavoro delle imprese e magari premiare le aziende virtuose con vantaggi fiscali e contributivi. Ma queste misure, dettate dal semplice buon senso, sicuramente non si faranno. Indovinate perché.
da: Corriere Ortofrutticolo,31/08/2015