Un importante articolo sulla sostenibilità delle attività zootecniche ed il loro impatto sull’ambiente è comparso sul numero del 13 febbraio scorso su “All about Feed” a firma del freelance Tony McDougal.
Il giornalista riporta il pensiero espresso dal Professor Windisch dell’università di Monaco di Baviera in occasione di un webinar di “Shothorst Feed Research” (Long-Term Challenges For The Feed Industry To Feed The World Population, 3/11/2022). Secondo il prof. Windisch, la narrazione che gli animali degli allevamenti inquinano pesantemente l’ambiente con l’emissione di gas serra e competono con l’uomo per l’alimentazione è un mito con il quale non intende confrontarsi ma, piuttosto, discuterne onestamente.
Intanto, se si volessero eliminare gli allevamenti animali, il terreno disponibile per le colture vegetali non sarebbe sufficiente a sfamare gli otto miliardi di bocche presenti sul nostro pianeta perché le superfici agrarie a livello globale tendono a ridursi e, comunque, non tutte possono essere convertite in aree arabili e coltivabili per produrre alimenti vegetali per almeno un paio di motivi:
- Il clima in alcune zone è troppo umido, troppo arido o la stagione vegetativa è troppo breve;
- I lavori di conversione porterebbero al rilascio di quantità drammatiche di CO2.
Attenzione alle biomasse residue, ammonisce il prof. Windisch, perché 1 kg di alimenti per vegani genera dai 3 ai 5 kg di biomasse non edibili che contengono un sacco di azoto e fosforo. Le biomasse, in qualche modo eliminate, produrrebbero emissioni di gas serra in grandi quantità. Non potrebbero essere usate come alimenti per il bestiame, che non ci sarebbe più. Verrebbe a mancare, conseguentemente, il letame indispensabile per la concimazione naturale necessaria per la salute della componente organica del suolo, già impoverito dalla troppa chimica.
La zootecnia produce proteine di elevato valore biologico con l’impiego di minori superfici di terreno coltivabile rispetto a quelle per gli alimenti vegani, senza entrare in competizione alimentare con l’uomo.
Un altro aspetto toccato dal prof. Windisch è stato il confronto fra il carbon footprint del pane e quello del pollo, delle uova o del suino, per grammo di proteine prodotte, decisamente a favore delle attività zootecniche. L’allevamento dei ruminanti, che presenta sì il più elevato carbon footprint a causa delle alte quantità di metano emesso, costituisce, comunque, il sistema più efficiente di sfruttamento dei pascoli naturali, in inglese “non-edible grasslands”. Il metano ha, comunque, una half life di meno di otto anni in atmosfera, dove viene riossidato a CO2.
A proposito delle “pericolose” emissioni di gas serra da parte degli animali, il prof. Windisch conclude con un’osservazione talmente banale da non essere mai citata: c’è una differenza sostanziale ed indiscutibile fra la CO2 emessa da un animale come prodotto della combustione metabolica dei nutrienti di cui si è cibato e quella emessa da un veicolo per combustione interna di una fonte energetica fossile. Nel primo caso quella quantità di CO2 era già presente in atmosfera prima di esser convertita, per fotosintesi clorofilliana, in carboidrati dei foraggi di cui l’animale si è alimentato. Nel secondo caso si è formata ex novo a partire dal carbonio degli idrocarburi, non presenti in atmosfera prima della loro estrazione dai giacimenti fossili. Più semplicemente, nel primo caso la CO2 viene riciclata attraverso le due fasi della fotosintesi nelle piante e della digestione negli animali. Il bilancio si chiude addirittura in negativo se consideriamo il non trascurabile fatto che parte del carbonio della CO2 rimane come parte costituente delle molecole dei nutrienti nelle produzioni (latte, carne). Nel secondo caso va ad aggiungersi a quella già presente in atmosfera, aumentandone la concentrazione, favorendo il riscaldamento globale.
Qualche considerazione in più va onestamente fatta, da una parte, a proposito del problema del metano che, in confronto con la CO2 vale un’ottantina di volte di più come effetto serra, anche se in pochi anni viene riossidato a CO2, e, dall’altra parte, a proposito delle pratiche di conduzione delle aziende e delle tecniche di lavorazione e trasporto dei prodotti (pastorizzazione del latte, caseificazione, macellazione, commercializzazione).
Per quanto riguarda il metano, la quantità prodotta dai ruminanti può essere controllata con l’alimentazione:
sono disponibili in letteratura i risultati di molte ricerche sull’effetto dell’aggiunta nella dieta di piccole quantità (0.05%) dell’alga rossa Asparogopsis taxiformis. Questa alga ha la proprietà di ridurre drasticamente la produzione del metano nel tratto digerente dell’animale semplicemente inibendo la formazione dei legami carbonio-idrogeno. La palatabilità è buona e non si hanno effetti negativi di nessun genere né sulla quantità, né sulla qualità delle produzioni di latte e carne.
Per quanto riguarda, invece, il risparmio sui fabbisogni energetici legati alle filiere di produzione bisognerà cercare di ricorrere il più possibile alle fonti rinnovabili, limitare le distanze per i trasporti, abbandonare la tecnica della pastorizzazione del latte ad alte temperature seguita da drastici raffreddamenti, sostituendola con la sterilizzazione con radiazioni UV, estremamente meno dispendiosa. E fare particolare attenzione alle attività delle filiere delle industrie mangimistiche, come la macinatura, la pellettatura, ecc., tutte energivore.
In conclusione, è senza dubbio indispensabile fare qualcosa per limitare i danni del riscaldamento globale da gas serra. Non sembra ragionevole pensare che la popolazione mondiale possa contare solo sugli alimenti di origine vegetale, specie i bambini e gli anziani, che saranno sempre di più. Bisogna, però, intervenire anche su altri settori, dal momento che le responsabilità della zootecnia pesano per non più del 14-15% (FAO, 2022.The role of animal health in national climate commitments).