Di fronte all’immane tragedia dell’alluvione in Romagna ci si sarebbe aspettato di tutto tranne che iniziasse un insistente botta e risposta alimentato da quello che il prof. Franco Prodi ha acutamente definito, anche su queste pagine, con un neologismo di grande effetto “la giornalistura” e cioè la dittatura dei giornalisti che senza quasi conoscere ciò di cui discettano si allineano al pensiero unico che in quel momento meglio si adatta a fare presa su un’opinione pubblica disorientata. Condividiamo questo termine e lo estendiamo a un “sistema” complesso che comprende mezzi di informazione, interessi economici dell’editoria di grande informazione cartacea e on line, vanagloria personale coltivata da giornalisti avidi di presenze su carta e in video, politica, alla costante ricerca dell’effimero consenso dei sondaggi. Non conta di che cosa si parli e il valore personale del singolo esperto, l’importante è l’obiettivo barocco del fare meraviglia.
Oggi, gettati nell’assurdo tritacarne delle notizie accanto a Prodi, un insigne fisico dell’atmosfera con particolare competenza in fisica delle nubi, vi sono i geologi troppo trascurati dal citato sistema insieme agli agronomi rumorosamente silenti, agli esperti della protezione civile con anni di esperienza in una mischia insopportabile e inconcludente insieme a sfaccendati di incerta competenza sulle più elementari realtà del nostro ambiente e delle sue componenti fisiche.
Le nostre terre appartengono all’unica grande pianura italiana dove si accentra il grosso della produzione agricola e alimentare del Paese. Qui vive una popolazione che parla dialetti diversi, ma conosce una sola lingua, quella della fatica e del lavoro, che impugna qualsiasi attrezzo e lavora a spalare il fango e l’acqua perché da subito riprendano la vita, il lavoro, l’economia, la società, senza sprecare tempo. E siamo coinvolti perché figli di questa gente e di un mondo che è il nostro.
Non servono parole vuote, serve un ragionare, serio e pacato, fuor di polemica, su alcune questioni perché già da ieri si riparte, ma domani può piovere ancora.
La prima riguarda la ricerca esasperata di “colpevoli” senza chiarire ad esempio a quale tipo di “colpe” si voglia dare corpo e quindi risposta. In genere si pensa all’urbanistica compiacente, all’imprudenza nell’autorizzare e costruire in ambiti a forte rischio, ma anche a incuria e mancata/insufficiente manutenzione. A ciò si accompagna il ritardo dell’attuazione di quanto previsto e progettato, spesso anche finanziato, che non si realizza a causa di ritardi decennali inspiegabili. Ma anche il mancato uso delle infrastrutture di difesa per rispetto di posizioni ambientaliste incomprensibili. È una ricerca improduttiva che si affanna ad aprire fascicoli e indagini che immancabilmente non sono in grado di fornire risposte esaurienti e che sa di vendetta, non di Giustizia.
Un secondo tema è il collegamento fra ambiente e clima usato forzando il paradigma che vuole che i problemi che emergono in queste occasioni nell’attuale fase di evoluzione climatica siano causati dalle ferite, in toto o in massima parte, prodotte dall’uomo, e individuando la causa prevalente nell’uso delle energie fossili, con tutto quanto ne consegue in termini di azioni “alla Greta” o, più recenti, nello stile “ultima generazione”. Non vale nemmeno soffermarsi sul tema delle differenze di orizzonti temporali fra un presente richiesto a gran voce e un futuro percepito molto prossimo. Si reclamano misure favorevoli all’impiego generalizzato dell’energia elettrica (non si sa come e dove prodotta in quantità adeguata e disponibile) o da gracili fonti alternative senza riflettere sul fatto che quel 15% che produciamo risale all’idroelettrico realizzato oltre un secolo fa ma che oggi nessun Comune accetta sul territorio.
Un terzo tema, chiaramente individuato nell’intervista del Prof. Prodi ai Georgofili, riguarda i tempi della terra e il rapporto con la percezione umana delle cause che agiscono sui fenomeni ambientali. Tempi che non sono la durata della vita del singolo o del ricordo di due o tre generazioni. Spesso nemmeno la storia scritta in una manciata di millenni e che, guarda caso, contiene notizie di diluvi e catastrofi già nei testi dei primordi delle letterature dà risposte alle domande che gli uomini già allora si ponevano. I tempi in cui si sono formati i luoghi fisici sono molto più lunghi, gli eventi poco conosciuti, i legami causali che ci ostiniamo a voler collegare imperscrutabili, nonostante l’avanzamento delle conoscenze. La storia della Terra, anche di quella oggi devastata, è complessa e va molto oltre alla capacità di comprensione dell’umanità.
Le riflessioni sul che cosa fare, sui criteri della ricostruzione, sulle lezioni da apprendere prima di tuffarci ignari nella prossima catastrofe partono da tutto ciò.
I problemi vanno sostanzialmente considerati su due distinti piani temporali: la ricostruzione immediata, con annesso ripristino delle condizioni di vita e di lavoro per la sopravvivenza degli uomini e delle loro attività, e i criteri per il futuro per cercare di evitare o contenere gli impatti di fenomeni analoghi.
È evidente che la ricostruzione immediata terrà conto di quanto fatto in passato e dei possibili rimedi introducibili nelle infrastrutture e negli edifici. Se ne discosterà nella misura del possibile e trarrà esperienza da questo evento collocandola nell’insieme degli eventi ricordati a memoria d’uomo.
Per puntare ad un futuro meno incerto occorre operare con un altro criterio. Non dimentichiamo il contesto fisico di collina e di pianura in cui ci troviamo. Una collina con torrenti come quelli in destra Po soggetti a piene devastanti ed immediate, strati di rocce di differente natura con diverse reazioni a forti sollecitazioni esercitate da carichi eccezionali di precipitazioni, il problema del contenimento delle acque e del consolidamento delle pendici. Una pianura che un tempo era palude, in cui i numerosi fiumi, compreso il Po, hanno nel tempo mutato il loro corso, a volte tornando a quello antico. Sede di una delle maggiori realizzazioni di bonifiche italiane. Dunque un territorio particolare conquistato con fatica e investimenti e non un ambiente lasciato in balia degli elementi. Un evento come questo indica che la ricostruzione deve tenere conto delle caratteristiche di fragilità del territorio e dell’esigenza di dimensionare i nuovi necessari interventi su parametri di sicurezza diversi e più sicuri.
Lo stesso varrà per la futura ricostruzione/costruzione di edifici e infrastrutture. Tranne che per pochi sognatori della decrescita (in)felice è chiaro che il territorio va usato, ma senza sprechi e con parametri di sicurezza più elevati. Non dovrà accadere che frettolosamente ci si basi su criteri di esperienza storica recente. Non si dovrà più sentire dire “non ho mai visto un fenomeno come questo” senza che si aggiunga “ma tutto ha retto senza catastrofi”. Il periodo di tempo nell’arco del quale si valuta l’entità del rischio va esteso per dimensionare adeguatamente i parametri da impiegare.
Per intenderci voglio ricordare un evento alluvionale che distrusse in una vallata alpina una chiesetta sopravvissuta per 4 secoli e tre condomini di recente costruzione edificati al margine dell’alveo di un modesto fiume. Tutti distrutti dalla furia dell’alluvione, la più grave degli ultimi decenni che ha spazzato gli edifici recenti e quello antico che evidentemente da almeno 4 secoli aveva resistito a fenomeni di minore entità. Semplicisticamente è evidente che la previsione del rischio richieda un periodo di valutazione basato sulla storia plurisecolare del territorio, come la chiesetta e non di fenomeni con frequenza minore.