Da settimane, ormai, stiamo vivendo una forzata “reclusione” da coronavirus che se da un lato è molto pesante per le restrizioni che ci impone, dall’altro ci lascia una notevole quantità di tempo per chiederci cosa ci riservi il futuro prossimo in termini di qualità della vita; a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri nipoti e alla società tutta, nella nostra città, nel nostro Paese, in Europa e nel mondo intero. Anche io, da vecchio docente di Agronomia, mi sono soffermato più volte a pensare a dove, come e quanto l’agricoltura italiana (o, meglio, le diverse agricolture italiane) avrebbe sofferto della crisi in atto e, di conseguenza, a come si potesse fin da subito approfittare di un “evento” così traumatico per mettere a punto dei nuovi modelli di sviluppo di tutto il comparto agroalimentare.
Come sopra accennato, a tutti i livelli decisionali interessati si dovrà finalmente tener conto del fatto che non c’è e non può esserci “una” sola agricoltura in Italia. In un Paese così “variegato” per le sue caratteristiche naturali, storiche, economiche, sociali - e per la “naturale” diversa potenzialità produttiva - la messa a punto degli specifici modelli di agricoltura “sostenibile” oltre che prevedere gli elementi tecnici ed economici più consoni alle diverse aree agricole (a livello locale) deve proporre con la massima efficacia possibile (e con più contenute difficoltà burocratiche) anche tutti gli interventi esterni a sostegno della produzione primaria e delle filiere produttive locali. In primo luogo, comunque, ritengo non più differibile la messa a punto di una credibile politica di salvaguardia delle nostre aree interne; riconoscendo - una volta per tutte - che in queste aree l’esercizio dell’agricoltura è senz’altro un’attività basilare per realizzare un’adeguata conservazione “attiva” dell’intero territorio. In molti dei comprensori di che trattasi era da tempo apparso evidente che, senza una visione strategica definita sulla base del complesso delle caratteristiche locali (e non solo agronomiche), non saremmo riusciti a frenare il crescente abbandono dell’attività agricola (Terres, 2015). Qualche anno fa, ad esempio, trattando della possibilità di introdurre colture agrarie da biomassa a destinazione energetica nelle aree marginali, in sede di Accademia dei Georgofili sostenni che “qualunque coltura agraria è migliore dell’abbandono anche dal punto di vista ambientale e della conservazione del territorio rurale”. La mia “uscita” non trovò allora tutti d’accordo (a taluni parve che il tutto entrasse troppo in conflitto con la produzione di cibo), ma oggi anche la statistica ufficiale (dal 1971 al 2010 abbiamo perso ben 5 milioni di ettari di SAU dei 18 totali e peggio sarà con il prossimo censimento) ci rammenta l’entità del problema e rende soprattutto evidente che per evitare l’abbandono delle aree coltivate “qualche cosa di più” rispetto al recente passato (ed al presente) lo dobbiamo comunque fare (colture poliennali, zootecnia estensiva, cerealicoltura di qualità, biomasse da energia, agroforestazione, agriturismo, ecc).
Di sicuro basta guardarsi intorno per capire che, oggi, non è più possibile continuare a prevedere modelli di sviluppo (ed interventi di sostegno) che non sappiano/possano tener conto delle specifiche differenti caratteristiche agro-ambientali dei nostri territori rurali; dobbiamo tutti convincerci che non possiamo più eludere il problema (troppo rinviato) di dover imparare a coniugare anche in chiave “locale” tutto quanto in termini di ricerca della sostenibilità è stato a suo tempo e da più parti auspicato a scala globale (vedi anche “L’utopia sostenibile” di E. Giovannini).
Inoltre, se vogliamo immaginare di proporre anche un’evoluzione verso migliori livelli di sostenibilità delle attività agricole a livello aziendale (meno inquinanti, meno costose, più resiliente, con prodotti di maggior qualità, ecc), appare a mio avviso indispensabile (il prof. Pagliai lo fa spesso dalle pagine di “Georgofili INFO”) ribadire anche come e quanto le scelte dell’agricoltore (colture, avvicendamenti, lavorazioni, ecc) siano di primaria e capitale importanza anche per la conservazione del terreno agrario e del suo livello di fertilità (anche per le generazioni future). Al riguardo, semplificando al massimo, voglio anche io ricordare che in qualunque tipologia di terreno agrario (più o meno sciolto o più o meno argilloso) e per qualunque sistema colturale, la conservazione di un adeguato livello di fertilità dipende soprattutto dalla nostra capacità di conservare nello stesso una sufficiente quantità di sostanza organica (humus); e ciò insieme alla possibilità di contenere adeguatamente l’erosione e limitare al massimo il compattamento del suolo.
Tutto ciò premesso e richiamato, è a mio avviso evidente che il mondo agricolo (tutto) dovrà servirsi - e dovrà farlo “fin da subito” – di tutto il patrimonio di cultura, scienza, innovazione, capacità di progettazione, ecc, già in essere nel nostro mondo della ricerca, nell’università e nelle scuole, per realizzare un tempestivo salto di qualità nella capacità di progettazione dei modelli di agricoltura sostenibile più adatti alle differenti realtà agro-ambientali. Ed è allora a mio avviso evidente che un'alleanza strutturata fra le Università e le Scuole con il sistema produttivo in essere nelle diverse filiere agro-alimentari potrebbe assicurare innegabili vantaggi reciproci, da un lato per il possibile prezioso trasferimento dell’innovazione e, dall’altro, per un più giusto equilibrio tra teoria e prassi nella preparazione dei futuri professionisti.