Dottor Pasti, lei conduce con fratelli e cugini, nel Basso Piave, un’azienda agricola di 600 ettari e fa parte di una famiglia dedita all’agricoltura da oltre tre generazioni. Dal dicembre 2001 al luglio 2017 è stato presidente dell’AMI, Associazione maiscoltori italiani. Qual è il suo punto di vista sull'attuale congiuntura negativa per i cereali causata dalla guerra in Ucraina, come riusciremo ad affrontarla e in quali tempi?
La guerra in Ucraina è un tragico evento che in Italia ha messo in luce la crisi del settore cerealicolo e maidicolo in particolare. Questa crisi tuttavia nasce da lontano ed è frutto di una serie di scelte fatte dal 2003 fino ad ora col Piano Strategico Nazionale. La guerra ha impedito le importazioni dal Mar Nero e spinto l’Ungheria, reduce da un’annata agraria poco produttiva, a mettere un blocco temporaneo alle esportazioni; quest’ultimo ha inciso in maniera più drammatica sulla disponibilità di mais sul mercato nazionale e ha spinto le quotazioni sulle principali piazze italiane oltre i 400 euro/tonnellata. Alcuni hanno additato la speculazione finanziaria per questi aumenti, ma in realtà le quotazioni a Chicago sono aumentate meno del 20% mentre sul mercato fisico in Italia sono aumentate di oltre il 40%, a testimoniare la carenza di prodotto e la scarsità delle scorte presenti nel nostro paese. Fortunatamente l’Ungheria ha parzialmente sospeso il blocco delle esportazioni e i rifornimenti per la produzione di mangimi sono ripresi. Prezzi così alti del mais hanno messo in crisi la zootecnia ed il settore del latte in particolare, che proviene da anni di prezzi bassi dopo la fine delle quote latte.
Allargando lo sguardo è interessante vedere come sono cambiati i prezzi negli ultimi 40 anni al netto dell’inflazione. Scopriamo così che il mais nel 1982 valeva 28.000 lire/qle che corrispondono a 590 euro/tonnellata di oggi, ma il latte alla stalla veniva pagato 81 centesimi al litro mentre al consumatore costava 1.46 euro al litro, più o meno come ora. In pratica nella catena del valore i margini si sono spostati a valle della fase di produzione agricola.
Affrontare la crisi attuale non è banale perché in realtà era già in atto prima della guerra e quest’impennata di prezzi colpirà duramente i consumatori più poveri dei Paesi in via di sviluppo del nord Africa, medio oriente e altri paesi asiatici. E’ di questi giorni lo scoppio di manifestazioni di piazza per i rincari di cibo e carburanti in Sri Lanka, Paese già provato dal crollo del turismo a seguito della pandemia e dal calo della produzione agricola a seguito della scelta del governo di imporre a tutti il metodo di produzione biologica. Se nella stagione entrante dovesse esserci un clima sfavorevole in uno dei principali bacini produttivi di cereali (USA, Cina ed EU) nei prossimi mesi ci troveremo di fronte ad una mancanza di cereali ben peggiore del periodo 2007-10 che diede poi origine alle primavere arabe. Già oggi l’indice del prezzo del cibo elaborato dalla FAO ha toccato un nuovo massimo storico.
Lei ha sempre denunciato anche in passato il fatto che i seminativi, in particolare il mais, attraversano da anni una grave crisi a causa di successive riforme della politica agricola europea che hanno spostato risorse verso altri settori e altri Paesi. Adesso paghiamo le conseguenze di queste scelte ma c'è un margine per rimediare, secondo il suo parere?
La PAC ha avuto un effetto importante, come ricordato prima, dagli anni ‘80 del secolo scorso al 2015 il prezzo del mais è calato di quasi 4 volte. Fino agli anni novanta avevamo un costante aumento delle rese che poi si è quasi fermato. Nel ‘92 la Riforma Mac Sharry aveva previsto un contributo disaccoppiato dalla produzione per compensare il calo dei prezzi derivante dalla riduzione dei dazi; questo contributo per i cereali all’inizio degli anni duemila valeva l’equivalente di 63 euro/ton ossia, considerando inflazione, corrisponderebbe a circa 91 euro/ton di oggi che per la resa media italiana del mais dovrebbero portare a circa 900 euro ettaro. Con le misure presentate a fine dell’anno scorso con il PSN il contributo PAC dovrebbe scendere a circa 175 euro/ha ossia 5 volte di meno di quanto previsto dalla Mac Sharry. Sono chiari segnali che chi indirizza la PAC in Italia non intende investire risorse nella maiscoltura e nei seminativi in genere. Alle riduzioni previste a Bruxelles, si sono aggiunte quelle più importanti derivante da scelte nazionali sulla regionalizzazione e sull’estensione del premio unico alle colture arboree come la vite che ha però mantenuto i fondi previsti dalla propria OCM. A questo quadro sfavorevole si aggiunge la scelta fatta dal governo italiano nel 2015 di escludere l’intero territorio nazionale dalla coltivazione del mais resistente alla piralide. Quest’insetto, molto prolifico in pianura padana, date le notti calde e umide, crea danni ingenti sia da un punto di vista quantitativo (10-20%) che qualitativo per la presenza di micotossine prodotte dalle muffe che prolificano sulle lesioni fatte dalla piralide. Queste micotossine, fumonisine e aflatossine, abbassano la qualità del mais ed il suo valore e creano intossicazione cronica in alcuni animali allevati causando danni anche alla stalla. A lungo gli oppositori del mais resistente alla piralide hanno sostenuto che la piralide non causava aumenti di aflatossine, questo anche grazie al fatto che in Italia non è possibile sperimentare in campo le piante OGM e quindi raccogliere dati per capire il comportamento di questo mais nel nostro territorio. Qualche anno fa è però uscito uno studio negli Stati Uniti che ha analizzato gli indennizzi assicurativi per danni da contaminazione di aflatossine ed è stato possibile stabilire una relazione inversa tra danni pagati e percentuale di mais resistente alla piralide coltivato nell’areale considerato. Gli agricoltori italiani quindi di fronte a prezzi calanti, rese stagnanti e rischio di ottenere un prodotto difficile da commercializzare perché contaminato da aflatossine, hanno preferito ridurre le superfici coltivate a mais che in quindici anni sono praticamente dimezzate. L’Ucraina nello stesso periodo ha avuto accesso al mais ibrido che ha consentito un importante aumento delle rese che a sua volta ha trascinato l’aumento di superfici coltivate, è quindi emblematico notare che nei primi anni duemila l’Italia produceva circa 10 milioni di tonnellate e l’Ucraina circa 8 e ora l’Italia ne produce a fatica 6 e l’Ucraina quasi 40.
Di fronte alla sfida di un'agricoltura produttiva ma sostenibile dal punto di vista economico, ambientale e sociale, Lei da georgofilo quali priorità individua per la ricerca scientifica del settore?
La sostenibilità è oggi l’obiettivo, e deve soddisfare tutti e tre gli aspetti altrimenti non funziona. Non è banale riuscire a sfamare 9 miliardi di persone riducendo le emissioni di gas climalteranti e adattandosi al cambiamento climatico che comporta un innalzamento dei mari, quindi perdita di superfici coltivate, innalzamento delle temperature con aumento dell’evapotraspirazione e pare anche un aumento di precipitazioni estreme e periodi di siccità. Sappiamo che mettere a coltura nuovi territori è dannoso sia per la biodiversità che per l’emissione di gas serra, aumentare le rese quindi deve essere un obiettivo. Trovo che da questo punto di vista il documento “farm to fork” elaborato un paio d’anni fa dalla Commissione Europea che sta condizionando l’attuale riforma della PAC, vada nella direzione sbagliata. Ridurre tout court l’uso di prodotti per la protezione delle piante, di fertilizzanti e la spinta verso l’agricoltura biologica ci porteranno a produrre meno. La soluzione proposta dalla Commissione a questo calo, ossia mangiare meno e mangiare meno carne, oltre che essere ingannevole, perché casomai è opportuno prima ridurre i consumi e solo poi le produzioni, è anche irrispettosa delle popolazioni più povere che oggi si trovano a dover affrontare un aumento dei prezzi del cibo senza precedenti. A tal proposito mi tornano in mente le parole del prof. Scaramuzzi nella prolusione al 262° anno accademico (Un grande errore:demolire l’agricoltura) quando commentando la “Carta di Milano” sottoscritta durante l’Expo sottolineava che il “diritto al cibo” rimarrebbe ideologico se non fosse consecutivo al “dovere di produrlo”.
A mio giudizio quindi la ricerca dovrebbe esser libera di studiare tutte le strade che portano a produrre più cibo, di qualità e con meno risorse, quindi anche meno prodotti fitosanitari e fertilizzanti, e in questo il miglioramento genetico delle piante, ivi inclusa la transgenesi, appare uno strumento irrinunciabile. Anche l’agricoltura di precisione e l’innovazione nelle tecniche agronomiche sono discipline che possono dare un valido contributo per questi obiettivi. In particolare lo sviluppo di nuove tecniche agronomiche può aiutarci ad aumentare il contenuto di carbonio organico nei suoli, utile sia per aumentare la fertilità e la riserva idrica dei suoli sia per contenere l’effetto serra. Purtroppo l’Italia e l’Europa sembrano impostare la politica agricola più su ideologie che sull’analisi dei fatti e impedire la ricerca in campo di piante modificate con le nuove tecniche di editing genomico oltre che di piante transgeniche ci impedisce di acquisire quelle informazioni necessarie per la valutazione di piante più resistenti alla siccità o con un’aumentata efficienza foto sintetica o ancora microorganismi in grado di fornire azoto alle graminacee (che risulta essere il primo input energetico nella coltivazioni dei cereali) e molto altro ancora.
L'opinione pubblica ha spesso avuto un'opinione bucolica dell'agricoltura, ma forse adesso che si parla sempre nei giornali e nei telegiornali degli oggettivi problemi a cui stiamo andando incontro e si tocca con mano l'aumento dei prezzi per scarsità di materie prime, il settore primario potrebbe finalmente guadagnare nell'attenzione del pubblico e dei decisori politici l'attenzione che merita. Lei che cosa ne pensa?
Speriamo, ma non mi illudo troppo. L’indice FAO dei prezzi del cibo ha toccato livelli difficilmente sostenibili per le popolazioni più povere, prezzi così alti spingeranno ad ulteriori disboscamenti delle foreste equatoriali e tropicali per mettere a coltura nuovi terreni. Questo dovrebbe essere una forte motivazione sia per motivi umanitari che ambientali per abbandonare approcci frutto di una narrazione che ha ingigantito problemi quasi inesistenti facendoci perdere di vista i fatti reali. A volte ho l’impressione che la nostra società abbia perso la lucidità per affrontare pragmaticamente i problemi tuttavia la necessità aguzza l’ingegno e speriamo che questa crisi sia un’occasione per ritrovare un approccio basato sulla scienza.