Gli echi degli orrori della guerra ci rattristano, ci preoccupano notevolmente e ci fanno pensare e riflettere. Oltre ad essere coinvolto emotivamente come tutti, avverto anche un senso di frustrazione nella veste di un vecchio ricercatore che si è sempre occupato di agricoltura, o meglio di valorizzazione della risorsa suolo al fine di essere utilizzato secondo la sua vocazionalità per ottenere prodotti e, quindi, cibo di ottima qualità.
All’improvviso si è scoperto una nuova emergenza e cioè che non abbiamo più materie prime per la nostra alimentazione, come il grano perché, a causa della guerra, ci manca quello importato da Russia e Ucraina. Ci sarebbe anche da riflettere su tutte quelle pubblicità che ci inondavano sui mas media circa le qualità di pasta e pane prodotti con grani e farine al 100% italiane; ci sarebbero gli estremi per stabilire se si trattava di pubblicità ingannevole? Ma tanto nel bel Paese non paga nessuno!
La frustrazione è doppia anche per aver vissuto la mia adolescenza in Maremma che, a quell’epoca, era la terra del grano duro, quello “dai baffi neri”, il famosissimo e prestigioso Senatore Cappelli, creato dall’antesignano dei genetisti, Nazareno Strampelli. Poi, piano piano, questa coltivazione fu drasticamente ridotta, si diceva perché soggetta all’allettamento vista l’altezza della pianta che la rendeva vulnerabile ai venti e agli acquazzoni primaverili. Ad ogni modo, nonostante i progressi del miglioramento genetico avessero prodotto varietà a taglia più bassa e quindi più resistenti all’allettamento, la progressiva riduzione di questa coltivazione non si arrestò a causa del crollo dei prezzi che resero tale coltura non più remunerativa. Si fa un gran parlare di sostenibilità ambientale ma poi quella determinante è la sostenibilità economica. Se questa non garantisce un reddito dignitoso non si fa agricoltura. A questo proposito si ricorda che, attualmente, su cento euro di prodotti di filiera acquistati al supermercato, all’agricoltore rimangono si e no 60-70 centesimi e questo spiega quali sono le difficoltà e la crisi dell’agricoltura stessa.
Nelle pianure e nelle colline che prima erano coltivate a grano, si sono fatti nuovi impianti di vigneti, con lavorazioni di preparazione del terreno non sempre compatibili con la protezione dell’ambiente tanto da incrementare i fenomeni erosivi, ma che tuttavia, in molti casi, hanno prodotto vini di ottima qualità, vista la vocazionalità dei suoli e della zona, che però ora si cominciano ad avere problemi di commercializzazione.
Attualmente si è fermata l’espansione viticola e si cominciano ad intravedere vaste aree in cui si attua la coltivazione intensiva dell’olivo. Come vecchio ricercatore plaudo a queste iniziative di “intensificazione sostenibile” in considerazione del fatto che l’olivicoltura tradizionale su larga scala è ritenuta non più redditizia e non mi associo al coro di chi lamenta una trasformazione del paesaggio maremmano; del resto il paesaggio agricolo mediterraneo è ancora oggi caratterizzato da versanti modellati dall’uomo mediante una serie di interventi sistematori aventi quale principale finalità la riduzione della lunghezza del versante o la modificazione delle pendenze. Pertanto, le aziende agricole devono, quindi, essere incentivate e sostenute a intraprendere una ripresa di una nuova progettazione di sistemazioni idraulico-agrarie in chiave moderna oltre che, ovviamente, attuare una gestione sostenibile del suolo. Quello che però preoccupa è che questi nuovi impianti sono tutti dotati di impianti di irrigazione a goccia, visto che i periodi di siccità sono in costante aumento, ma anche la risorsa idrica non è infinita e in un futuro davvero prossimo potrebbe mancare e, nonostante se ne parli tanto, non si vedono ancora progetti concreti per il recupero e lo stoccaggio dell’acqua piovana.
Adesso arrivano messaggi sulla necessità di riprendere su larga scala la coltivazione del grano: ma dove? Forse si dimentica che i terreni di buona qualità per questa coltivazione sono ormai in via di estinzione a causa, non tanto delle nuove coltivazioni di vite e ora di olivo, ad esempio, ma di quel consumo di suolo e di quella impermeabilizzazione di cui si parla solo quando l’ISPRA presenta il suo rapporto annuale sul drammatico consumo del suolo stesso, che nemmeno la pandemia è riuscita a fermare.
Se non si comincia davvero a fare una seria pianificazione del territorio e una programmazione di sviluppo rurale in una visione, finalmente, di lungo termine, accompagnate da adeguate politiche di sostegno all’agricoltura, saranno sempre le nuove generazioni a pagare pesantemente le conseguenze di queste continue emergenze.