Il Blog del 13 aprile scorso dell’International Food Policy Research Institute (IFPRI) riporta un interessante pezzo che non avremmo voluto leggere, a cominciare dal titolo: “Di male in peggio, come le restrizioni all’export alimentare conseguenti alla guerra Russia-Ucraina stanno esacerbando l’insicurezza alimentare globale”, a firma dei ricercatori Joseph Glauber, David Laborde e Abdullah Mamun.
Secondo gli Autori, la prima conseguenza delle restrizioni all’esportazione di alimenti è l’aumento del loro prezzo, cosa che mette in difficoltà in prima istanza i Paesi importatori. In secondo luogo, la tendenza alle restrizioni tende ad essere “contagiosa”, nel senso che anche altri Paesi esportatori possono seguire e stanno seguendo l’esempio.
La guerra in Ucraina è partita in un momento in cui il livello delle scorte era basso, ad eccezione di quello del riso e, per di più, anche a causa del perdurare della pandemia, molti governi si trovavano in precarie condizioni finanziarie, mettendo a rischio soprattutto le politiche di sicurezza sociale.
In passato l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization) non è riuscita a mettere a punto delle regole condivise per disciplinare le restrizioni alle esportazioni alimentari, anche quando fosse opportuno introdurre delle eccezioni, come nel caso degli aiuti umanitari.
Nel frattempo, osservano i ricercatori dell’IFPRI, i vari Paesi dovrebbero collaborare per evitare una situazione come quella della crisi dei prezzi del 2007-2008. Le politiche commerciali alimentari si muovono rapidamente, ma hanno lunghi strascichi di fame e creano nuova povertà.
L’Ucraina e la Russia hanno ridotto le esportazioni soprattutto per garantire scorte adeguate di derrate alimentari per le loro popolazioni durante il conflitto. I due Paesi hanno ristretto le quote esportate per circa il 35% del valore in dollari e per circa il 42% in termini di calorie di energia alimentare.
Riguardo ai singoli prodotti, le restrizioni globali di tutti i Paesi che le attuano riguardano il 35,9% del grano, il 55% dell’olio di palma, il 17,2% del mais, il 78,2% dell’olio di girasole ed il 5,8% dell’olio di soia. Pomodori, carne bovina e pollame incidono per circa il 10%.
Sempre secondo l’IFPRI, i Paesi che più pesantemente risentiranno delle restrizioni alle esportazioni sono, ovviamente, quelli che importano le maggiori quantità di grano e mais, ovvero quelli dell’Asia centrale, come la Mongolia e del Nord Africa come l’Egitto e il Sudan, insieme a quelli dipendenti dalle importazioni di oli vegetali, come l’India, il Pakistan e il Bangladesh.
È facile concludere che, se la guerra non finisce presto, i Paesi poveri che ricorrono a cospicue importazioni di derrate alimentari diverranno ancora più poveri e i loro abitanti saranno sempre più spinti ad emigrare verso altri lidi, con tutte le conseguenze che ci possiamo immaginare.