Professore Ferrini, Firenze è stata recentemente selezionata dalla Ue per l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2030, Lei invece con il suo dipartimento universitario collabora al progetto Prato Forest City, per la forestazione urbano della città, ed ha più volte sostenuto nei suoi libri e in molti articoli il bisogno del verde in città: come pensa che sia possibile attuare questa “rivoluzione verde”?
Occorre partire dalla constatazione che le nostre città, pur essendo i motori della crescita economica, propulsori di idee e centri nevralgici di creatività e di innovazione tecnologica, sono purtroppo spesso caotiche, inquinate, rumorose e fonte di stress. C’è bisogno di riprendere un contatto con la natura che purtroppo il gigantismo delle realtà metropolitane ha fatto perdere, in Italia e anche all’estero.
C’è necessità di trovare aree verdi che consentano una rigenerazione a livello psico-fisico. Il verde aiuta ad accrescere non solo il benessere ambientale, ma anche quello sociale. Per questo esprimo la necessità di un’autentica rivoluzione verde. Essa deve partire dall’incremento della copertura arborea delle nostre città che, purtroppo, attualmente è molto al di sotto del “minimo sindacale” non solo in molte grandi città ma anche, soprattutto, nelle realtà medie e piccole – anche per la loro conformazione storica - dove la cementificazione e il consumo di suolo hanno allontanato il cosiddetto territorio aperto, dove è presente l’elemento naturale.
Dobbiamo creare città più verdi, ambienti concreti dove è possibile vivere bene. Quindi occorre partire dalla misurazione della copertura arborea, comprendere dove sono più sensibili le carenze di aree verdi, di alberi e da lì intervenire per creare le condizioni su misura dal punto di vista ambientale.
Quanto verde serve alle città?
Dal punto legislativo ci si rifà ancora al Decreto interministeriale 1444 del 1968, ovvero a un decreto datato più di 50 anni fa. In esso si stabilisce un minimo di 9 metri quadri destinati ad aree verdi, o più nello specifico “per spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili per tali impianti con esclusione di fasce verdi lungo le strade”.
Nove metri quadri sono una quantità irrisoria di verde urbano per le città. Credo che la dotazione minima da considerare dovrebbe essere di 20 mq netti. Tuttavia addirittura il minimo stabilito per legge è spesso disatteso- . Inoltre dovrebbe essere un verde fruibile: non è pensabile che esso si limiti solo alle aiuole spartitraffico o ai viali alberati, comunque utili anche solo per limitare le isole di calore urbane e a ridurre l’inquinamento, oltre che catturare CO2 e produrre ossigeno.
Solo per fare un esempio: dieci rotonde verdi da 500 mq che valgono quindi 5000 metri quadri di verde non possono valere come un piccolo parco con la stessa superficie totale.
Ci riassume ancora una volta quali sono i benefici delle piante?
Parto dalle evidenze del report di Nature Conservancy: incrementando la copertura arborea delle nostre città mediante una adeguata pianificazione si potrebbero risultati importanti sotto forma di minore inquinamento. E questo consegue minor tasso di patologie cardio vascolari e broncopolmonari, ma in generale favorisce una migliore salute, stimola un maggiore moto delle persone e quindi minori problemi di iperglicemia e ipertensione. Una maggiore presenza di verde urbano per le città contribuisce a rafforzare il sistema immunitario. Del resto, è stato dimostrato che anche il Covid-19 è stato più virulento nelle aree più inquinate, che ci rendono più deboli ed esposti agli agenti patogeni e ai virus.
Nel complesso, i benefici noti sono quelli legati alla cattura dell’anidride carbonica e alla produzione di ossigeno, alla riduzione degli inquinanti nell’aria, la produzione di ombra e la conseguente azione nel ridurre le isole di calore. Quelli meno noti riguardano il positivo effetto sulla biodiversità, specie quella microbica: questa è forse la più importante, perché influisce sulla nostra salute.
Quando si parla di microorganismi si tende a pensare all’accezione negativa. In realtà il nostro corpo è composto per oltre la metà da cellule microbiche. Sono fondamentali per la nostra vita. Il microbiota intestinale di una persona che vive vicino ad aree verdi è diverso da quello di una persona che vive in un contesto fortemente urbanizzato. Ma è anche la presenza dei microrganismi presenti nel suolo- per esempio, o intorno alle piante o presenti sulle foglie sono da sempre in simbiosi con gli esseri umani: la presenza di piante ha un effetto fondamentale sul microbiota che ci garantisce una migliore salute. È un beneficio invisibile, ma essenziale.
Dunque è ancora possibile una riconversione verde delle città?
Le rispondo in tre modi. Pessimistico: ormai abbiamo passato il punto di non ritorno. Il realismo mi porta a dire che se ci mettiamo in moto ora forse possiamo imprimere un cambiamento, anche se gli effetti a medio e lungo termine innescati dai cambiamenti climatici li dobbiamo ancora sentire. Ottimisticamente parlando, invece, ho ancora un po’ di fiducia sul genere umano che è stato capace di sprofondare in una crisi climatica da lui stesso provocata potrebbe anche risollevarsi. E lo potrà fare solo – metaforicamente parlando – sostenendosi a quel ramo proteso verso terra che spesso tagliamo, potiamo, capitozziamo. Se permettiamo di farlo crescere allora ci sarà ancora speranza.
Di rivoluzione verde si parla anche nel PNRR, dove si prevede - tra le azioni rivolte principalmente alle 14 città metropolitane – lo sviluppo di boschi urbani e periurbani, piantando almeno 6,6 milioni di alberi (per 6.600 ettari di foreste urbane). Personalmente nutro seri dubbi perché la gran parte dei terreni ancora liberi sono di proprietà privata e difficilmente vengono ceduti. In ogni caso è fattibile, concentrando gli sforzi economici e umani. Inoltre, serve assecondare la natura, che progressivamente si riappropria di aree sottratte negli anni passati per l’agricoltura e il pascolo. Ciò sta già avvenendo in Italia che può registrare un aumento della superficie forestale, a scapito di terreni abbandonati. Purtroppo nella riconquista verde spesso prevalgono specie invasive e alloctone. Dovremmo invece promuovere la rinascita spontanea, ripulendo il bosco e dando spazio per la piantagione progressiva di specie autoctone. In ogni caso credo sia necessario fare uno sforzo su più livelli, a livello istituzionale, decisionale, economico, sociale per creare boschi urbani, piuttosto che impianti sparsi qua e là, poco significativi. Questo porrebbe le basi anche per la creazione di microclimi più favorevoli e con ricadute più positive per le città.
Lei tuttavia ha sostenuto che la misura prevista dal Green Deal europeo di piantare da qui al 2030 tre miliardi di alberi e irrealizzabile. Perché?
Finora poco o nulla è stato fatto e al 2030 mancano poco più di otto anni. Significa piantare circa 375 milioni di alberi l’anno, ossia quasi 2 milioni al giorno, considerando che il periodo d’impianto si può estendere (ottimisticamente) per circa 200 giorni e togliendo sabati, domeniche e festivi: è uno sforzo titanico non solo dal punto di vista economico, ma anche di reperibilità. Da presidente del distretto vivaistico ornamentale di Pistoia posso dire che la disponibilità arborea nei vivai italiani, inclusi quelli forestali è di circa 10 milioni di alberi all’anno. Quindi non ci sono materialmente gli alberi da piantare per centrare l’obiettivo europeo.