In Danimarca una tassa sui gas serra prodotti in agricoltura. Quanto ci dobbiamo preoccupare?

di Mauro Antongiovanni
  • 10 July 2024

Qualche giorno fa la notizia (Dairy Global, 27 giugno 2024): il governo danese, dopo cinque mesi di discussioni, sta introducendo un balzello sugli agricoltori relativo alle emissioni carboniose di gas serra, a partire dal 2030.
La tassa prevede il pagamento di 40€ per tonnellata di CO2 prodotta, aumentabili a 100€ a partire dal 2035. Sono previsti sconti per gli agricoltori più “volenterosi”, “climate-efficient” in inglese. Non è chiaro come saranno compilate le pagelle, ma tant’è. Gli esperti prevedono, bontà loro, che, solo nel primo anno di applicazione della carbon tax, possa venir abbattuto il 70% delle emissioni totali di gas serra di origine agricola.
La notizia sta suscitando qualche commento di motivato scetticismo fra gli agricoltori europei, a fronte dell’entusiasmo di alcuni parlamentari danesi a favore del provvedimento.
A proposito della necessità di abbattere l’inquinamento da gas serra dovuto alle industrie zootecniche, molti seguaci di Greta Thunberg hanno prodotto in questi anni pubblicazioni di vario genere per confermare, giustamente, il cattivo stato di salute della nostra atmosfera e cercare di attribuirne le colpe.
Fra i tanti esempi, Chiara Falduto, con la nota dal titolo “L’impatto ambientale della carne: perché è importante ridurne il consumo” (duegradi, 12 ottobre 2019), scrive: “L’industria della carne è oggi una delle principali responsabili dell’emissione di gas serra nell’atmosfera, producendo il 14% delle emissioni globali, più dell’intero settore dei trasporti, considerando treni, macchine, aerei e camion. Cambiare le nostre scelte alimentari e adottare una dieta meno ricca (se non priva) di carne avrebbe dunque un impatto significativo sulle emissioni globali di CO2 e metano”. Ancora la Falduto: “Uno studio dell’Università di Oxford mostra che, in media, i mangiatori di carne sono responsabili di quasi il doppio delle emissioni di gas serra al giorno rispetto ai vegetariani e circa due volte e mezzo rispetto ai vegani. Ad esempio, se un amante della carne è responsabile, ogni anno, di circa 3,3 tonnellate di CO2, un vegetariano è responsabile solo di 1,7 tonnellate, ed un vegano di 1,5. Rinunciare alla carne rossa farebbe, da sola, una grande differenza, riducendo la propria impronta di carbonio a 1,9 tonnellate di CO2”.
L’autrice non tiene evidentemente conto del fatto che i vegetariani ed i vegani, per sopravvivere, devono consumare, anche loro, alimenti, nel loro caso vegetali, alimenti che fermentando nel loro tratto digerente producono flatulenze, ovvero gas serra climalteranti. A questo proposito, leggiamo su Internet (Agostino Macrì, Consumatori.it, 11 novembre 2019): “Da un curioso studio condotto nel 2018 presso l’Università di Lund (Svezia) risulta che la flatulenza dei vegetariani e dei vegani è più frequente e più “tossica” di quella degli onnivori. Lo studio è stato condotto su 180 persone divisi in tre gruppi di vegetariani, vegani e onnivori di 60 persone. È risultato che la frequenza è 1,4 volte superiore nei vegani e nei vegetariani rispetto agli onnivori. La “tossicità” è 2,87 volte più elevata nella flatulenza dei vegani e dei vegetariani sempre rispetto a quella degli onnivori”.
E poi, dovremmo considerare anche i gas serra, principalmente il metano, prodotti da un’altra attività agricola non zootecnica: la risicoltura. Leggiamo, sempre su internet che cita “Ambiente, agricoltura” dell’11 novembre 2018: “La risicoltura produce lo stesso inquinamento di 200 centrali a carbone: lo studio shock.” La firma è di Francesca Mancuso. Non sappiamo quanto sia affidabile un’affermazione del genere, anche perché la quantità di gas serra prodotta dalla risicoltura è molto variabile in funzione delle tecniche colturali e dell’andamento climatico. Ma, comunque, anche di questo dovremmo tener conto per alleggerire un po’ le colpe degli allevatori e dei mangiatori di carne.
La fonte bibliografica dello studio dell’università di Oxford, cui ha fatto cenno la Falduto, non è da lei citata. Risulta, invece, che la stessa università di Oxford abbia pubblicato degli studi con i quali si ridimensionano i calcoli relativi ai dati citati (Allen et al., 2016, Nat. Clim. Change, 6: 773-776; Allen et al., 2018, NPJ Clim. Atmos. Sci., 1:1-8; Allen et al., 2022, NPJ Clim. Atmos. Sci., 5:1-16).
Senza scomodare gli scienziati di Oxford, limitiamoci ai dati FAO (rapporto della Nazioni Unite, 8 dicembre 2023): “Tra i dati più significativi, si evidenzia che i bovini – compresi carne e latte – contribuiscono a circa 3,8 GtCO2 equivalenti all’anno, pari al 62% del totale del bestiame, mentre il 14% è attribuito ai suini, il 9% ai polli, l’8% ai bufali e il 7% ai piccoli ruminanti. Per quanto riguarda i prodotti, la produzione di carne rappresenta i due terzi delle emissioni, il latte il 30% e le uova il resto”.

Tutto questo per concludere che, al di là del bombardamento di informazioni più o meno serie cui siamo sottoposti:
- Il problema del riscaldamento globale è reale e va, in qualche maniera, affrontato;
- diffondere dati gonfiati senza riscontro scientifico a scopo terroristico per farci rinunciare alla carne e al latte è, quanto meno, scorretto;
- i risultati della fantasiosa possibile conversione dell’umanità verso il vegetarianismo ed il veganismo non porterebbero a grossi miglioramenti sul riscaldamento globale. Ma, sicuramente, comporterebbero perdite di posti di lavoro, con tutto ciò che ne consegue sul piano sociale;
- dobbiamo non perdere di vista gli inutili sprechi nella produzione e nel consumo pro capite degli alimenti di origine animale, limitandolo anche per motivi salutistici;
- fare la massima attenzione all’uso corretto dei terreni da destinare alle colture dei foraggi e mangimi degli animali, a cominciare dalla deforestazione selvaggia;
- fare particolare attenzione alla composizione delle diete per i bovini.

È necessario che l’opinione pubblica distolga lo sguardo dal settore delle produzioni agricole e lo allarghi anche agli altri settori, molto più inquinanti, come quello della produzione di energia elettrica da fonti fossili non rinnovabili, come il carbone e gli idrocarburi o quello dei trasporti pubblici e privati.
Facciamo qualcosa tutti insieme, globalmente, adottando efficaci misure di contenimento, ma in maniera proporzionale all’entità del danno che ciascun settore produce. Il settore zootecnico ha già cominciato.