Nel secondo libro di Columella, al cap. 42, il sommo “agronomo” così si esprimeva: “...sono diversi i segni che permettono di riconoscere un terreno soffice e adatto al grano, come la presenza di giunco, canna, trifoglio, rovi, prugnoli, e diverse altre piante che, ben note ai ricercatori, crescono solo nelle vene di una terra morbida".
I primi lavori sulle piante Bioindicatrici risalgono a circa 100 anni fa in Francia, dove l’argomento era addirittura disciplina scolastica.
In natura, le piante consumate o danneggiate hanno da sempre segnalato ai cacciatori segni della presenza di selvaggina invisibile; quelle che per la loro impollinazione (orchidee) o la loro disseminazione (vischio) dipendono strettamente da una singola specie animale, ne indicano anche la presenza.
In generale, tutte le piante spontanee possono dare interessanti indicazioni sugli aspetti pedoclimatici e agrocolturali riferiti a una determinata coltura e per uno specifico territorio.
Lo studio scientifico, ossia mediante l’utilizzo della fitosociologia e della fitoecologia, delle piante bioindicatrici, abbinato anche ad altre tecniche di indagine (analisi fisico chimiche di laboratorio, “prova della vanga”, ecc.) può diventare un utile mezzo diagnostico per l’agricoltore e il tecnico, che avranno a disposizione un “metodo biologico” atto anche a verificare gli effetti positivi o negativi di determinate pratiche agrarie.
Infatti, la presenza di determinate specie vegetali, legate a determinati biotopi e a specifiche esigenze di clima e terreno, può evidenziare anche alcuni errori di coltivazione (es. lavorazioni in epoche o con attrezzi non ottimali, ristagni, errori di concimazioni, ecc.). Appare evidente che, in tutti questi casi, le semplici analisi fisico-chimiche di laboratorio possono non dare evidenza di questi “errori”.
Una definizione “moderna” di piante bioindicatrici può essere la seguente: “Specie vegetali facilmente riconoscibili, la cui presenza (o, al contrario, l'assenza) in luogo fornisce indicazioni su una o più caratteristiche, fisico-chimiche o biologiche, naturali o dovute all'azione dell'uomo. L'espressione deve essere sempre al plurale e si dovrebbe parlare piuttosto di vegetazione indicatrice (o associazione vegetale) perché una specie, o una pianta, non può essere, da sola, un indicatore”.
Affinché una pianta possa essere considerata un bioindicatore in un ambiente deve essere in posizione dominante sulle altre specie presenti, ovvero almeno da 5 a 10 soggetti per metro quadrato, o almeno il 70% dello spazio occupato dalla pianta stessa. È una logica di predominio della pianta tra le altre.
La metodologia di indagine oggi più seguita nello studio delle piante bioindicatrici è quella che utilizza gli studi del botanico Gerard Ducerf sulle relazioni germinazione/dormienza dei semi delle specie spontanee.
Dal punto di vista operativo è necessario dapprima avere a disposizione un’ottima guida botanica, per operare poi in campo secondo una metodologia standardizzata. In genere le epoche di rilievo sono la primavera, l’estate e l’autunno (non si interviene in inverno per evidenti necessità di temperature di alcune specie).
Si definisce una zona omogenea della parcella, si identificano le specie presenti e per ognuna di esse si rileva il tasso di presenza; successivamente si somma il tasso di copertura e si analizza secondo il fascicolo riportato da Gerard Ducerf.
Le indicazioni che si possono ricavare sono diverse: a) struttura del suolo (compatta, arieggiata, ecc.); b) tessitura, pH, pratiche umane presenti o passate (es. terreno arato, calpestato, ecc.); c) attività dei microrganismi (batteri, funghi); ecc.
Come esempio si riporta la lettura di un terreno a dominante presenza di Stellaria media, una specie considerata “rappresentante” di un terreno di “ottime qualità”:
“Terreno biologicamente attivo, aerato, non compatto, buona mineralizzazione del materiale organico. Pianta che indica un terreno ben equilibrato e fertile”.
Foto: Stellaria media