Cinque mesi di grandi discussioni per scrivere l’aiuto accoppiato in Italia. Risultato? Il solito spezzatino «all’italiana».
Non serve all’agricoltura, non serve allo sviluppo dell’economia del Paese.
Bisognava prendere due decisioni: la percentuale tra 0 e 15%; i settori ai cui destinare il sostegno.
Quale decisione è scaturita?
Un plafond di 426,8 milioni di euro, pari all’11% del massimale nazionale dei pagamenti diretti.
Un sostegno erogato in 17 misure e 12 settori: latte, carne bovina, ovicaprini, bufalini, soia, riso,
barbabietola, pomodoro da industria, grano duro, oleoproteaginose, proteiche, olio d’oliva.
Bene la scelta per la zootecnia e l’Italia «regione unica».
Ma a che servono 98 euro/ha al riso (22,6 milioni di euro per 230.000 ettari)? A che servono 65 euro/ha alla soia (10 milioni di euro per 150.000 ettari)? A che servono 50 euro/ha per il grano duro (59,7 milioni di euro per 1.150.000 ettari)?
Servono a complicare la vita agli agricoltori, senza alcun beneficio per l’economia agroalimentare del Paese.
Cosa bisognava fare? Concentrare le risorse su pochi settori dove la produzione genera beni
pubblici, utili al Paese (occupazione e ambiente): latte in montagna, vacca nutrice, ovicaprini, olivo
paesaggistico, barbabietola e proteiche. Bastava il 5% del plafond.
Invece abbiamo un inutile spezzatino! I politici si riempiono la bocca di «semplificazione», poi aumentano sempre la burocrazia.
Questa vicenda stimola due valutazioni.
Primo. Non servono gli aiuti a pioggia per affrontare il vero nodo dell’agricoltura italiana: la competitività. L’agricoltura italiana fa fatica a essere competitiva, soprattutto nelle produzioni tradizionali indifferenziate (le cosiddette commodities). Gli aiuti accoppiati servono a nascondere questo problema. L’agricoltore viene costretto a comprare i mezzi tecnici, a produrre anche quando il prezzo è basso, a seminare per prendere il contributo. Invece si deve seminare per il mercato, non per il contributo! Gli imprenditori agricoli, quelli veri, abituati a fare i propri conti e disposti a rischiare, preferiscono il disaccoppiamento.
Sono invece favorevoli all’accoppiamento, da un lato, i segmenti della filiera a monte della
fase agricola, i fornitori di mezzi tecnici, che non vogliono rinunciare alla rendita generata
dall’obbligo di coltivazione; dall’altro, l’industria di trasformazione, che non vuole rinunciare alla
rendita legata a un’offerta «drogata» di materia prima, continuando a imporre prezzi di acquisto e
condizioni di mercato. Un partito della rendita che difende statalismo e spesa pubblica inutile.
Secondo. Questa vicenda mostra gli evidenti limiti istituzionali del nostro Paese.
Bisogna fare le riforme istituzionali che ha promesso il Governo Renzi.
Le decisioni sull’attuazione della PAC vengono prese dalla Conferenza Stato-Regioni, che è uno
strumento inadeguato. Ad esempio, il fatto che debba votare all’unanimità la costringe ai peggiori compromessi (ricordiamo l’aiuto al pungitopo nell’articolo 68, che ha fatto ridere tutta l’Europa).
Acceleriamo le riforme, anche per il bene dell’agricoltura.
Con il nuovo Senato, che accorperà la Conferenza Stato-Regioni e il Cnel, avremo una vera istituzione elettiva che rappresenta le Regioni e che potrà votare a maggioranza a beneficio di una migliore politica agraria nazionale.
Da: l’Informatore Agrario 23/2014