L’avvento di Trump alla guida degli Usa ha portato con sé un’improvvisa ventata di novità che non finisce di stupire il resto del mondo. Da un lato la sua personalità, la modalità di affrontare problemi mondiali irrisolti da decenni, la fulmineità delle sue reazioni, dall’altro la “sventagliata” dei cento provvedimenti urgenti e che sono azioni di governo già decise e preparate, enfatizzate dai riflettori della comunicazione. La novità scuote un quadro stagnante dominato da uno stile molto più formale e prudente. Saltano vecchi schemi, regole obsolete, punti fermi di una diplomazia più convenzionale in un mondo che sta perdendo la capacità di gestire in tempi brevi situazioni tanto complesse.
Seguendo un’abile regia, l’offensiva trumpiana si è mossa da iniziative destinate a suscitare un grande clamore come la guerra dei dazi subito scatenata in maniera, però, dichiaratamente flessibile e che colpisce Paesi e casi di particolare impatto sulla sensibilità interna degli Usa e su quella esterna dei principali partner, come i Paesi confinanti (Canada e Messico), quelli vicini territorialmente (Panama, Colombia e Groenlandia), quelli affini nello scacchiere politico mondiale ma lontani geograficamente come i Paesi europei, o quelli “politicamente” avversi come Russia e Cina. La miscela di casi lascia intendere che le misure concrete, come i dazi in via di applicazione, in realtà abbiano un forte contenuto di politica economica e anche siano parte di una strategia mondiale tout court. Che siano solo l’indice di un volume più ampio, quello della politica Usa dopo l’era chiusa da Biden e iniziata con la fine della Seconda Guerra e la pace successiva.
In sintesi, la traccia di un nuovo ordine mondiale che Trump intenderebbe costruire, sostituendo quello precedente in forte affanno nelle grandi emergenze di questo decennio con l’obbiettivo di dimostrare che se il resto del mondo è debole non lo è altrettanto l’America.
Il progetto in realtà affronta tematiche molto diverse e connesse. È così per la questione dei nuovi dazi che Trump dichiara di voler imporre e che non implicano un’applicazione generalizzata, ma sarebbero diversi a seconda dei prodotti e servizi interessati, oltre che dei Paesi coinvolti. L’equilibrio faticosamente costruito attraverso il Gatt e poi la Wto ne verrebbe compromesso con conseguenze serie sul volume degli scambi e sulla valorizzazione delle potenzialità dei singoli Paesi segnando la fine del vantaggio competitivo. Allo stesso tempo provocherebbe un impatto sulle dinamiche inflazionistiche e un freno ad ogni tentativo di migliorare la produttività per contenere i costi. La conclusione finale sarebbe un generale impoverimento.
L’esperienza degli scorsi decenni, al contrario, dimostra concretamente che la liberalizzazione degli scambi fa salire il Pil dei singoli Paesi e dell’intero complesso dell’economia mondiale. Non solo, ma essa nei Paesi il cui deficit commerciale tendenziale sale stimola la ricerca di soluzioni per aumentare la competitività delle produzioni. Questo, ad esempio, è il caso dell’Italia per quanto riguarda il saldo della bilancia agroalimentare. Finché le esportazioni erano limitate ai prodotti agricoli essa era cronicamente in passivo, con l’incremento delle esportazioni dei prodotti alimentari invece è gradualmente passato prima al pareggio e poi, negli ultimi anni, ad un attivo importante.
Il mancato rispetto degli accordi multilaterali comporta l’applicazione delle sanzioni e delle ritorsioni previste, con l’apertura di un contenzioso lungo e complicato e comunque col ritorno ad un mercato dominato dalla deregulation. L’esito finale, quindi, sarebbe comunque negativo per tutti e da evitare in ogni caso, ma soprattutto in una fase come l’attuale in cui la crescita dell’economia è prossima allo zero.
Un altro tema importante di fronte alla strategia trumpiana è costituito dal ruolo e dalle conseguenze per il nostro Paese e per quelli europei. In realtà, come ha scritto di recente Mario Draghi in un editoriale sul “Financial Times”, l‘economia dell’Europa cresce meno del previsto a causa delle difficoltà della ripresa interna. La sua dipendenza dalla domanda estera mina alle basi una maggiore crescita. Le riflessioni di Draghi sono interessanti per la sua autorevolezza ed esperienza. Negli anni in cui è stato alla guida della BCE ha dimostrato che alcuni dei limiti più evidenti della crisi Ue, e quindi della debolezza dell’euro rispetto al dollaro, potevano essere ridotti con una maggiore capacità di iniziativa dell’Ue. La critica che al tempo gli veniva mossa da alcune parti, in genere dai Paesi “virtuosi”, era che l’unico Organismo europeo che attuava una politica veramente comunitaria era la BCE di Draghi e ciò in contrasto con il suo ruolo che avrebbe dovuto essere meno politico e più tecnico. Oggi, di fronte all’immobilismo dell’Ue che di fatto si allarga agli altri Paesi europei, inclusa la Gran Bretagna post Brexit, la critica è esattamente l’opposta e cioè di essersi arroccata sul rispetto e la costruzione di regole e vincoli di funzionamento sempre più cogenti senza progredire nella costruzione di una crescente integrazione. Quando si parla del disamore degli Europei nei confronti dell’Ue imputandolo al peso delle norme comunitarie si commette un errore di prospettiva. È vero il contrario. Avere continuato la vita dell’Ue con una logica sostanzialmente da “Mercato comune” e non da “Unione” non ha condotto ad un maggior benessere né a finanze più sane né ad un’autonomia europea oggi minacciata.
Una considerazione su cui riflettere nel momento in cui Trump cerca di ricostituire un equilibrio mondiale indebolito e il blocco occidentale, a cui apparteniamo insieme agli Usa, rischia di essere travolto da nuove aree geopolitiche sconfitte in passato da quella occidentale.
Grande assente l’Europa, l’altra sponda dell’Atlantico.