La storia della difesa integrata e biologica delle colture agrarie ha origini lontane e si può far risalire al lavoro geniale di un entomologo canadese, il dott. Deforest Pickett, e a quello dei suoi collaboratori nei meleti della Nuova Scozia (1940). Pressoché contemporaneamente anche un gruppo di entomologi dell’Università della California, negli USA, iniziò gli studi sull’argomento in coltivazioni di erba medica.
Al nuovo indirizzo, o meglio alla nuova filosofia, come piaceva dire agli americani, secondo cui la lotta, tuttavia irrinunciabile nelle moderne coltivazioni intensive, acquista una funzione del tutto complementare e viene applicata con modalità tali da essere compatibile con la lotta biologica, fu dato il nome negli USA di “Integrated Control” (M.M. Principi, 1992).
In Europa tale corrente di pensiero arrivò intorno alla metà degli anni’50, in particolare grazie agli studi e alle sperimentazioni di campo di entomologi olandesi, tedeschi, francesi e svizzeri.
Sempre negli USA sorse nel 1972 il “progetto Huffaker”, così chiamato dal nome di un professore di entomologia dell’Università della California, che ne lancio la proposta e la diffusione. Si trattava di un progetto denominato IPM (Integrated Pest Management), che come obiettivo aveva il contenimento di tutti i “nemici” delle piante mediante una combinazione di conoscenze e una gestione integrata dell’intero agroecosistema. Si cominciava, così, a sostituire il concetto di lotta integrata con quello di protezione integrata.
Le prime applicazioni pratiche di lotta guidata nei frutteti in Europa risalgono agli anni ’70. In Italia, in Emilia Romagna, ebbe inizio il progetto regionale di lotta guidata alle avversità dei fruttiferi e della vite. Anche in altre Regioni italiane sorsero e furono attuati programmi di protezione integrata per diverse colture. L’entusiasmo coinvolse le Regioni, le Università, le cooperative e si diedero inizio a tante sperimentazioni per definire soglie di difesa, valutazioni agronomico-sanitarie dei formulati antiparassitari, ecc.
Nel frattempo nascevano strutture private e pubbliche, fatte di valenti tecnici ben preparati e istruiti, per affiancare l’agricoltore nell’applicazione dei nuovi criteri di difesa integrata delle colture. Gli agricoltori si sentivano coinvolti come parte attiva in questi programmi di difesa, e fu proprio la partecipazione convinta di questi “utenti” che facilitò la diffusione di questa nuova “mentalità” nella difesa fitoiatrica. Erano gli anni dove le idee innovative valevano più di mille contributi!
A metà anni ’80-inizio anni ’90 arrivarono i “Disciplinari di produzione integrata”, che dovevano rappresentare vere e proprie “Sacre Scritture” per gli agricoltori e i tecnici nelle campagne. Numerosi ricercatori scesero in campo (agronomi, tossicologi, biologi, medici, economisti) per “selezionare” seriamente molecole “poco tossiche” per l’uomo e per l’ambiente.
Con il passare del tempo, però, molti furono “delusi” del lavoro delle commissioni tecniche per la redazione dei disciplinari e si misero da parte, non contenti della gestione che, purtroppo, stava prendendo il progetto iniziale. L’impressione è che nessuno aveva il coraggio di dire realmente “questo/a si, questo/a no”.
Intanto gli studi e i dati sulla tossicologia delle molecole aumentavano, in attesa che qualcuna di esse andasse finalmente “a riposo”. Qualcuna fu messa realmente “fuori dal gioco” ma non tanto per motivi tossicologici (quando la tossicità non poteva realmente essere ignorata!!), quanto, probabilmente, per interessi commerciali/strategici delle stesse società fitochimiche.
I disciplinari di produzione integrata cominciarono a diventare un grosso “serbatoio” dove quasi tutto era ammesso, senza un vero criterio di selezione delle varie sostanze attive. Così, ci si ritrovava e ci si ritrova con tante molecole, vecchie e nuove, più o meno tossiche, sempre nelle solite “caselle”. L’unica differenza è un limite massimo di trattamenti per la stessa sostanza attiva, difficile da gestire tecnicamente in campo e, figuriamoci, da controllare realmente sui registri dei quaderni di campagna.
Si riproponevano i soliti concetti di resistenza, ma tante sostanze attive, ormai resistenti, erano sempre lì; si scopriva che all’interno di “famiglie chimiche” alcuni composti erano più pericolosi di altri, ma, alla fine, erano di nuovo tutti assieme nel “contenitore”.
Per non parlar, poi, di alcuni criteri di difesa, dove sembrava realmente di essere tornati alla “lotta a calendario” (vedi es. il ricorrente consiglio: “trattare in autunno, dopo la raccolta, e a inizio primavera”).
Nel frattempo nascono anche i disciplinari delle cooperative, della GDO, ecc. Si punta spesso, in modo esagerato, sui concetti di LMR e sulle sommatorie dei residui. La confusione aumenta, ma i problemi restano sempre gli stessi e, come sempre, nella confusione totale c’è sempre chi ci guadagna!
Scompaiono molti servizi di assistenza tecnica pubblici e molte cooperative si dotano di strutture proprie di consulenza. Peccato, però, che in molti casi i “poveri” tecnici sono relegati in moderne fitofarmacie, direttamente o indirettamente di proprietà della stessa cooperativa. Nascono anche figure nuove di tecnici che sulla carta risultano super partes ma, poi, si rivelano spesso influencer di mercato. L’agricoltore, da parte sua, aspetta sempre qualche modifica della PAC che possa aggiungere qualche euro in più ai soliti contributi, senza pensare ad un minimo di rivoluzione culturale che, partendo dal basso, investa seriamente l’animo e le menti di chi, spesso solo a parole, parla di difesa della natura e della salute del consumatore.
Sicuramente è stato fatto tanto in questi anni, ma si poteva e si può fare ancora di più se, tutti assieme, ripartiamo dal concetto molto semplice che: UN’AGRICOLTURA PIU’ PULITA è UN DOVERE SOCIALE, PERSONALE e di MERCATO.