Professore La Marca, che cosa è attualmente previsto dalla Direttiva europea che tutela i lupi e come potrebbe essere modificata per tutelare anche gli allevatori europei?
In Italia il lupo per secoli è stato considerato un animale nocivo e per questo è stato oggetto di lotta con ogni mezzo: dalla braccata, alla cattura con trappole, all’adescamento con bocconi o con intere carcasse di animali avvelenati. Con l’approvazione del cosiddetto “decreto Natali”, del 23 luglio del 1971, il lupo è stato depennato dall’elenco delle specie nocive e inserito in quello delle specie protette. In quell’epoca in Italia si stimava che la popolazione di questo predatore, fosse ridotta a circa un centinaio di esemplari concentrati in Abruzzo e in Calabria, mentre in tutte le altre regioni si considerava eradicato. In definitiva il lupo si è salvato nei distretti zootecnici montani dell’Italia centrale e meridionale, grazie alla presenza della pastorizia.
Il primo atto di tutela del lupo, nato sotto l’egida del Consiglio d’Europa, è la Convenzione di Berna del 19/9/1979 e recepita dall’Italia con L. 5 agosto 1981, n. 503. In questo modo il lupo viene inserito nell’allegato II ("specie strettamente protette"), per cui viene stabilita una protezione speciale e se ne proibisce specificamente la cattura, l’uccisione, la detenzione ed il commercio.
Successivamente, la tutela del lupo è stata sancita dalla Direttiva Habitat (92/43/CEE ), recepita dall’Italia con DPR dell’8 settembre 1997, n. 357, la quale inserisce il lupo negli allegati B ("specie la cui conservazione richiede la designazione di zone speciali di conservazione") e D ("specie prioritaria, di interesse comunitario che richiede una protezione rigorosa"). L'art. 12 della direttiva europea stabilisce il regime di rigida tutela della specie con il divieto di qualsiasi forma di cattura e di uccisione deliberata nell'ambiente naturale. L'art. 16 della direttiva stabilisce che, ai fini della prevenzione di danni gravi all'allevamento, alla fauna, nell'interesse della sanità e sicurezza pubblica, è prevista la possibilità di deroga ai divieti di abbattimento e cattura del lupo. In Italia il DPR 357 del 1997, che recepisce la direttiva Habitat, prevede l'attuazione della deroga dietro autorizzazione del Ministero, sentito il parere dell'Infs (oggi Ispra), a condizione che non esistano altre condizioni praticabili e che la deroga non pregiudichi lo stato di conservazione sufficiente delle popolazioni di lupo.
Anche la Convenzione di Washington, rivolta al commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione (CITES: Washington, 1973), recepita in Italia con legge 19 dicembre 1975, n. 874, riguarda particolari misure di tutela del lupo in quanto “specie potenzialmente minacciata".
Bisogna rilevare che si è trattato di atti appropriati e tempestivi per salvare una specie seriamente minacciata di estinzione.
Perché si dice che il lupo "torna" in Europa, dove è stato negli ultimi anni?
L’espansione della specie è avvenuta sia in conseguenza del regime di tutela della specie, sia per il verificarsi di condizioni favorevoli alla diffusione del lupo in termini di disponibilità di ampi spazi conseguenti all’esodo delle popolazioni dalle campagne e all’istituzione di aree protette, sia per l’incremento di risorse trofiche allocate prevalentemente nella fauna ungulata selvatica, in particolare nella diffusione del cinghiale sull’intero territorio nazionale e del capriolo e del cervo in diverse Regioni italiane. Nel contempo però, con l’incremento della popolazione del predatore, sono gradualmente aumentati i casi di predazione tra gli animali in produzione zootecnica.
In Europa esistono deroghe allo stretto regime di protezione: gli abbattimenti sono stati consentiti per alcune zone della Spagna e della Grecia in cui era documentata l’eccessiva presenza del lupo; risulta che in Francia, a seguito di pesanti predazioni di pecore, gli abbattimenti autorizzati riguardino circa il 19% della popolazione, e anche in Germania recentemente è stato autorizzato qualche abbattimento. In tutti i casi sopra riportati evidentemente è risultato che non esistevano altre condizioni praticabili e che la deroga non pregiudicava lo stato di” conservazione sufficiente” delle popolazioni di lupo. Allora andrebbe chiesto alle singole Regioni e all’ISPRA se esistono specifiche richieste di gestione del lupo e in questo caso sarebbe oltremodo interessante conoscere il contenuto dei pareri. Nel caso invece manchino richieste in questo senso c’è da ritenere che il problema non sia tale da richiedere un intervento in deroga, oppure che il lupo non sia ancora in condizioni di ” conservazione sufficiente “.
Perché la presenza del lupo crea conflitti con gli allevatori di bestiame ed anche con la popolazione?
Secondo uno studio condotto da ISPRA (2017), i maggiori conflitti tra le attività antropiche e la presenza del lupo sono legate all’allevamento di bestiame domestico. In questo ambito bisogna considerare che negli ultimi cinquanta anni gli allevatori di bestiame si erano assuefatti allo status che sanciva l’eradicazione del lupo dalla maggior parte del territorio italiano per cui, per ragioni economiche e sociali che hanno pesantemente influenzato il modo di allevare gli animali domestici, hanno sempre più adottato sistemi di pascolamento allo stato brado e semibrado in assenza di costante guardiania e di cani idonei a contrastare le predazioni da parte dei lupi. D’altra parte c’è da osservare che l’aumento dei costi di un addetto alla guardiania sono cresciuti in maniera spropositata rispetto all’aumento del valore di mercato di un animale in produzione zootecnica. Nel caso di allevamento di ovi-caprini, i più predati dal lupo, e anche quelli che necessitano di una maggiore guardiania , per ragioni economiche si è assistito nel suddetto lasso temporale a un notevole aumento di capi affidati al singolo guardiano. Questo fa sì che la sorveglianza sia meno efficace di un tempo. Un altro fattore che gioca a sfavore di una attenta sorveglianza è la presenza di pascoli cespugliati.
L’aumento demografico del lupo e la sua diffusione ormai in tutto il territorio nazionale ha riacceso conflitti che si ritenevano ormai spenti, in taluni casi li ha acuiti fino a far registrare gesti inconsulti e non condivisibili, spesso dettati dalla necessità di attirare l’attenzione della politica su un problema che ormai in determinate aree del nostro Paese è diventato non più sostenibile.
Il conflitto è decisamente in crescita per i frequenti avvistamenti di lupi in aree urbanizzate denunciati dalla stampa e documentati spesso sui social che finiscono per destare preoccupazione nella popolazione che teme per la propria incolumità, per quella dei bambini e, da ultimo, per gli animali da affezione sempre più spesso predati dai lupi. L’ultima in ordine temporale è la notizia di un maestro di sci in Provincia di Trento che, mentre passeggiava in Folgaria con i suoi due cani, ha visto sbranare uno di essi. Alla fine l’uomo è stato soccorso dai Vigili del fuoco e dagli agenti del Corpo forestale accorsi sul posto. Lo spavento per il malcapitato è stato fortissimo, come peraltro egli stesso ha testimoniato. Senza contare che quello stesso sentiero, spesso, lo percorre con la figlia piccola.
Per quanto riguarda le attività zootecniche, allo stato attuale l’unico rimedio per limitare i danni è rappresentato dalla intensificazione della guardiania, dalla presenza di un adeguato numero di cani da guardia, dal ricovero notturno degli animali in condizioni di sicurezza dagli attacchi da parte del lupo. Va considerato che tutto ciò ha costi non proprio indifferenti che alcune Regioni riconoscono agli allevatori. La risoluzione, o almeno la mitigazione di questi conflitti, rappresenta la condizione indispensabile per far sì che la presenza del lupo sia in qualche modo accettata. Tenuto conto però che nelle aree in cui il lupo è presente, anche con l’adozione di un efficace piano di gestione del lupo, qualunque sia il grado di prevenzione messo in atto, un certo grado di danni al bestiame sarà inevitabile, bisogna farsi carico del risarcimento totale del danno, senza ulteriori spese da sostenere da parte del danneggiato e senza lungaggini burocratiche.
Come sono organizzati i ristori verso chi subisce danni a causa di lupi?
Bisogna premettere che determinate forme di allevamento zootecnico, vuoi per caratteristiche degli animali, vuoi per tradizioni secolari, vuoi per ragioni legate a determinati territori e alla presenza di aree a pascolo di proprietà collettive o gravate da usi civici (vedi ad esempio gli allevamenti di bovini di razze podoliche allo stato brado, vedi gli allevamenti di cavalli da carne), non si prestano né a forme di guardiania intensive, né a realizzazioni di idonee strutture per proteggere gli animali dagli attacchi di predatori. In questi casi si tratta di attività esercitate in forma estensiva senza strutture ricettive e spesso praticate da imprenditori che utilizzano estesi pascoli comunali con contratti di fida civica. Nelle aree caratterizzate da elevata presenza di allevamenti zootecnici spetta ai tecnici indicare le misure da adottare, senza preconcetti e senza anatemi (e senza escludere lo status di area “non vocata” alla presenza del lupo), spetta alla politica fare proprie e tradurre in atti amministrativi le decisioni conseguenti.
Comunque, anche nella più ottimistica ipotesi di adeguamento dei metodi di allevamento e di realizzazione di tutti i presidi dissuasivi nei confronti del lupo (vedi allevamenti di ovi-caprini), pur senza tener conto degli aspetti economici che ne conseguono, rimane il problema del ristoro del danno “patito e patiendi” come direbbero i giuristi ovvero, in termini economici, del “danno emergente e lucro cessante”.
Quando si verifica un attacco a un allevamento, salvo casi particolari di attacchi all’interno dei ricoveri, in genere la singola predazione diretta è limitata rispetto alla consistenza dell’intero gregge (danno emergente), mentre il danno indiretto, consistente in animali feriti, animali che abortiscono, animali che fanno registrare perdite più o meno durature nella produzione del latte, incidenza della predazione sui costi fissi dell’allevamento zootecnico, è considerevole e normalmente non considerato (lucro cessante). Ovviamente se le predazioni si ripetono a brevi intervalli di tempo, come non di rado avviene da parte di predatori “problematici”, allora la considerazione sopra riportata cambia radicalmente.
In sede di ristoro del danno molto spesso i regolamenti degli Enti che provvedono alla liquidazione del danno contemplano la corresponsione di un indennizzo (l’indennità presuppone di aver esercitato legittimamente un diritto che, però, ha comportato una compressione o lesione del diritto altrui) che, in molte realtà, si traduce nell’erogazione di un parziale contributo rispetto al danno subìto. Il risarcimento totale del danno emergente avviene soltanto in alcuni casi, quello relativo al lucro cessante, praticamente quasi mai. Non parliamo poi del danno psicologico di colui che vede vanificato il proprio lavoro e si sente impotente di fronte ad adempimenti burocratici defatiganti, alla certificazione che il danno è ascrivibile a un attacco da lupo (in genere da parte dell’Autorità sanitaria locale) al pagamento dei relativi oneri connessi e di quelli per lo smaltimento delle carcasse. Tutto ciò fa sì che non di rado l’allevatore ometta di denunciare la predazione. Non sono rari i casi di abbandono dell’attività zootecnica e di disincentivazione ad intraprendere nuove attività in zone ad elevata incidenza di predazione.
In Italia, secondo Berzi (2022), nel periodo 2015-19 i capi predati sono stati oltre 25.000 di cui quasi il 20% nelle province di Siena e Grosseto. In Toscana le richieste di risarcimento danni nel periodo compreso tra il 2014 e il 2020 sono state 3361 ed hanno interessato 660 aziende agro-zootecniche. Un fatto è certo: se il danno si fosse distribuito equamente tra tutte le aziende si tratterebbe di circa 1 capo all’anno, allora non varrebbe la pena nemmeno di parlarne. Purtroppo sappiamo che non è così. Ciò nonostante il dato medio non di rado viene invocato ad arte da alcuni Enti per celare situazioni di danni decisamente insostenibili.
Cosa si sa sulle consistenze numeriche del lupo e sul suo stato di conservazione in Italia?
La Direttiva Habitat obbliga gli Stati Membri ad attivarsi affinché le specie di interesse comunitario, come il lupo, siano in uno Stato di Conservazione Soddisfacente (SCS-ISPRA 2016). L’ultimo Piano redatto da ISPRA (2016) considera il lupo distribuito in due principali popolazioni geograficamente distinte identificabili in appenninica ed alpina. Sulla base di 7 parametri valutativi indicati nel suddetto Piano (Linnel et al.2008) la popolazione appenninica è valutata in stato di conservazione soddisfacente, mentre quella dell’area alpina non è ancora da considerarsi tale.
Tra i fattori di minaccia vengono indicati:
- la mortalità antropogenica conseguente al bracconaggio, bocconi avvelenati;
- gli incidenti sulle strade e sulle ferrovie;
- le malattie e patogeni, contratte dal contatto con animali domestici (cimurro);
- il conflitto con le attività economiche dell’uomo;
- il conflitto con le attività venatorie che vedono il lupo come un competitore privilegiato in quanto non soggetto ad alcuna regolamentazione;
- la presenza di cani vaganti e l’ibridazione. L’ibridazione rappresenta la principale minaccia alla conservazione per l’identità genetica della specie. L’ISPRA ha analizzato il DNA di moltissimi esemplari provenienti dall'Italia e dal resto dell'Europa, ed ha concluso che a livello genetico il lupo italiano (Canis lupus italicus) è nettamente distinto da tutti gli altri lupi d'Europa e del mondo.
In Italia manca un dato attendibile sulla consistenza del lupo e manca un dato quantitativo distribuito a livello territoriale, indispensabile per qualsiasi progetto di gestione. Si attendono i risultati del monitoraggio partito nel 2020 che ha visto impegnati circa 3000 tra tecnici e volontari appositamente formati. Nel frattempo dovremo accontentarci di una stima, frutto di estrapolazioni, peraltro ormai datata, in cui la forbice dei valori si attestava a livello nazionale tra poco più di 1000 e poco meno di 2500 capi (ISPRA 2016). Secondo dati acquisiti dal gruppo di ricerca del CIRSeMAF (Apollonio 2016), nella Regione Toscana erano stimati almeno 580 capi. Se questo è il dato attendibile per la Toscana, si deduce che quello dell’estrapolazione nazionale non può essere rispondente alla realtà. Come è stato già detto, l’errore più grave in questo tipo di analisi è quello di calcolare la densità dei lupi dividendo il numero per la superficie totale di un territorio vasto, senza considerare la concentrazione in determinate aree ristrette e la totale mancanza in altre. Si verificherebbe quello che è descritto nella nota “Statistica di Trilussa”. Sempre per la Toscana, la densità media del predatore risulterebbe pari a 2,74 individui/100 km2, mentre sappiamo che la maggior concentrazione del lupo si ha nel senese e nel grossetano, dove maggiore è la presenza di allevamenti di bestiame in produzione zootecnica. Un’ulteriore considerazione da fare a proposito di questo predatore è la capacità di coprire distanze di diversi chilometri per la sua attività di caccia in una sola notte.
Al di là dei numeri, il lupo è presente su tutta la dorsale appenninica dove, secondo alcune valutazioni, esistono aree in cui ha raggiunto la saturazione. Questo spiegherebbe l’avvistamento in zone urbane e periurbane e la presenza di animali sempre più confidenti nei riguardi dell’uomo spinto dalla necessità di trovare risorse trofiche da fonti alimentari legate all’uomo non disdegnando animali in allevamento zootecnico, rifiuti alimentari e animali da affezione. A questo punto una considerazione va fatta circa il ruolo senza dubbio positivo del predatore in aree ad elevata naturalità dove effettivamente rappresenta un regolatore ecosistemico (vedi la capacità del lupo di contribuire al controllo demografico di specie come il cinghiale, il capriolo, il cervo). La presenza invece del lupo in contesti a vocazione zootecnica o in aree urbanizzate non può che generare conflitti con operatori economici ma anche con la popolazione, oltre che rappresentare un pericolo per la stessa specie, che in questo modo corre maggiori rischi di ibridazioni, di perdita della propria identità genetica e di vera e propria snaturazione.
Si potrebbe fare qualche proposta per questo settore?
La normativa in questo settore c’è, basta applicarla, senza condizionamenti da parte di qualsiasi lobby nell’accezione autentica del termine, ovvero: di gruppi di persone che sono in grado di influenzare a proprio vantaggio l'attività del legislatore e le decisioni del governo o di altri organi della pubblica amministrazione. L'art 16 della direttiva habitat e, per quanto riguarda l’Italia, il DPR 357 del 1997 (ambedue sopra riportati per estratto) sanciscono che ai fini dell’applicazione di un piano di gestione del lupo, l’obiettivo da perseguire è “lo stato conservazione soddisfacente” a livello di popolazione e non di individuo con pretestuosi ricorsi a principi etici o ideologici.
Si concorda con Berzi (com. pers.) che la prevenzione deve rappresentare il presupposto per mitigare i conflitti: cani da guardiania, recinzioni antilupo (laddove possibile), guardiania intensiva. Resta inteso che la Pubblica Amministrazione alla quale è demandata la gestione della fauna selvatica deve farsi carico dei costi da sostenere, di una adeguata assistenza tecnica e deve impegnarsi a superare gli ostacoli normativi esistenti.
Premesso che la predazione di animali in allevamento deve rappresentare episodi rari e comunque mai con intensità tali da incidere significativamente su questa attività, un altro punto essenziale riguarda il pronto e completo ristoro del danno emergente e del lucro cessante agli allevatori danneggiati.
Un altro aspetto riguarda il monitoraggio continuo affidato a professionisti terzi e altamente qualificati, in modo da consentire alla Pubblica Amministrazione di assumere decisioni su dati certi. Infine si ritiene che sia indispensabile avviare una corretta comunicazione, a tutti i livelli, dei concetti di tutela delle popolazioni, dell’importanza di conservare patrimoni genetici unici, della necessità di gestione delle differenti componenti ambientali nell’ottica di tendere al bilanciamento di interessi che, esaminati singolarmente, possono risultare contrastanti.