Dopo oltre mezzo secolo di fervente europeismo l’Italia si scopre improvvisamente di sentimenti opposti, in vista delle elezioni quasi tutti i partiti assumono toni critici sino a chiedere l’uscita dall’euro se non dalla stessa Europa. Si apre in ritardo un dibattito ineludibile sulla moneta unica. I rapporti monetari fra i paesi europei hanno una storia che si sviluppa nell’arco di oltre 60 anni. Dalla “Unità di conto” (Uce) il cui valore coincideva con il dollaro american, in lire pari a 625, all’attuale euro che ne vale 1937,26, si è affermata la necessità di avere uno strumento per regolare i rapporti interni, per dare stabilità alla moneta e per affermare il ruolo dell’Europa nel contesto mondiale sottraendosi all’egemonia del dollaro.
La moneta comune sognata dai fondatori dell’Europa era considerata un passaggio indispensabile per conseguire l’unità politica del continente dopo quella economica. Fra le tante politiche comuni in agenda, aperta da quella agricola che rimane la più avanzata, si colloca quella economica e monetaria di cui essa è un indispensabile elemento.
Gli stati membri di fronte all’alternativa fra approfondire l’Unione economica e monetaria per arrivare poi alla moneta o partire da questa facendo seguire le politiche necessarie, scelsero, con l’eccezione di Gran Bretagna e Danimarca la seconda strada. Oggi su 28 stati membri, soltanto 18 condividono l’euro, ma tutti partecipano alle regole monetarie comuni, compresa la gestione delle politiche europee di bilancio.
Accolto come un successo per l’Italia, l’ingresso nell’euro ha presto mostrato alcuni aspetti negativi, molto sentiti dall’opinione pubblica, come il calo di potere d’acquisto, la circolazione di moneta metallica sino a 2€, usavamo carta moneta già da 1000 lire, il periodo troppo breve di affiancamento e di doppi prezzi, la sensazione di estraneità della nuova moneta. Sul piano macro economico gli effetti positivi non sono stati adeguatamente sfruttati per porre rimedio al grande problema del paese, l’entità elevata e crescente del debito pubblico. La riduzione dei tassi, il crollo dell’inflazione, il minor costo delle materie prime non hanno compensato le carenze del paese, anzi la competitività è diminuita a causa di una moneta ritenuta troppo forte.
L’Italia ha affrontato la sfida dell’euro nella convinzione che la necessità l’avrebbe costretta a mettere ordine nel suo sistema economico, riducendone la rigidità, intervenendo sul costo del lavoro salito più che altrove, eliminando l’inefficienza del settore pubblico, modernizzando il sistema produttivo. Sotto l’incalzare della crisi si è compreso che tutto ciò non era avvenuto per la debolezza politica del paese che non aveva superato i suoi problemi.
Uscire dall’euro non risolve i nostri problemi interni. Pensare che le svalutazioni competitive siano possibili e convengano nel lungo termine o diano frutti immediati è irrealistico. Un’eventuale nuova lira svalutata, di pochi punti perché vincolata ai meccanismi di cambio a cui sottosta anche la sterlina, porterebbe a un calo del potere d’acquisto di salari e pensioni nonché dei risparmi denominati in lire. Al contrario farebbe crescere il debito pubblico denominato in euro, facendo inoltre salire l’onere degli interessi per il maggior rischio, colpendo mutui e debiti. Aumenterebbe il costo delle materie prime che importiamo. Il recupero di competitività dato dalla svalutazione favorirebbe solo la parte dell’economia che esporta, non chi opera sul mercato interno e le pubbliche amministrazioni. Nulla di risolutivo per i problemi del paese aggravati dall’isolamento della lira dalle altre valute europee.
Meglio allora, da un lato, concorrere con gli altri paesi a migliorare il funzionamento dell’euro e a far crescere l’Unione economica e monetaria e, dall’altro, con pazienza e costanza a rimettere ordine in casa nostra.
La questione non si risolve con un si o con un no, la partita è troppo importante per dare spazio all’impazienza, all’insofferenza e all’emotività.