Professore Gucci, Lei è Presidente dell'Accademia Nazionale dell'Olivo e dell'Olio. Ci spiega chi ne fa parte e quali sono le principali attività che svolge?
L'Accademia Nazionale dell'Olivo e dell'Olio nasce nel 1960 a Spoleto per iniziativa dell’allora senatore Salari e di un gruppo di imprenditori agricoli, professori universitari, industriali e professionisti che compresero il ruolo strategico dell’olivicoltura all’interno del quadro agricolo nazionale e la necessità di costituire un sodalizio indipendente ove confrontarsi e tracciare le linee guida per lo sviluppo del comparto. Dopo oltre 60 anni dalla fondazione l’assetto sociale dell’Accademia segue la stessa impostazione iniziale, e accoglie oltre 270 membri che appartengono a diverse categorie professionali con l’obiettivo di rappresentare e coprire tante e diverse competenze. Naturalmente la gran parte degli accademici proviene da Università ed enti di ricerca particolarmente attivi nella ricerca, didattica e trasferimento tecnologico per la filiera olivicolo-olearia, ma rimane l’eterogenea composizione di esperti in grado di fornire pareri, condurre studi, proporre progetti e divulgare informazioni tecniche e scientifiche a beneficio della filiera. Gli obiettivi di maggiore interesse riguardano la promozione di studi, ricerche, seminari e convegni sui maggiori problemi concernenti l'olivo ed i suoi prodotti e sugli aspetti vitali di natura tecnico-economica, giuridica e nutrizionale e la collaborazione con associazioni di categoria e portatori di interesse per iniziative di livello nazionale ed internazionale. Per fare un esempio pratico, a partire dall’autunno del 2021 l’Accademia ha organizzato per conto di un’importante associazione nazionale di produttori olivicoli un nutrito ciclo di seminari telematici di aggiornamento tecnico, tuttora in corso.
L'olivo è parte integrante del paesaggio italiano, una vera icona soprattutto in certe regioni, ma succede talvolta che gli olivicoltori abbandonino la loro attività perché non ne traggono abbastanza reddito. Come si può ovviare a questo problema? Ci sono segnali positivi da parte della politica?
L’olivicoltura caratterizza il paesaggio delle regioni peninsulari ed insulari italiane in maniera unica. Tuttavia, la situazione attuale dell’olivicoltura non è affatto florida e purtroppo si assiste ad un diffuso e progressivo abbandono anche in zone di antica tradizione. Le cause sono tante e sono sia di natura strutturale che congiunturale. Molti oliveti, spesso tra i più attraenti dal punto di vista paesaggistico e più delicati dal punto di vista ambientale, sono ubicati in aree marginali che non consentono elevate produzioni e comportano alti costi di produzione. Si stima che circa due terzi della nostra olivicoltura sia costituita da oliveti tradizionali e che solo una piccola quota di questi abbia le caratteristiche per essere redditizia dopo opportuni interventi di miglioramento della tecnica colturale. In molti casi però le pendenze dei terreni, i vincoli posti dai terrazzamenti, la frammentazione delle superfici aziendali rendono praticamente impossibile modernizzare e rendere competitivi gli oliveti. Dobbiamo essere consapevoli che non possiamo perdere questi patrimoni culturali, trascurandoli fino all’abbandono o addirittura lasciandoli invadere dalla vegetazione spontanea e dal bosco. Per contrastare i fenomeni di degrado dobbiamo agire su più leve. Da un lato la valorizzazione dei prodotti dell’olivicoltura che passa inevitabilmente attraverso ulteriori miglioramenti della qualità, la promozione della diversità varietale che tali prodotti rappresentano, e la divulgazione dei loro benefici salutistici e sensoriali. Dall’altro dobbiamo valorizzare gli elementi territoriali dell’olivicoltura tradizionale, cioè il legame storico tra la coltivazione dell’olivo e i territori, le positive ricadute ambientali sulla regimazione idrica e protezione del suolo dall’erosione, l’identità del paesaggio, per citare solo alcuni degli aspetti più importanti. La recente legge che dal 2020 equipara l’oleoturismo all’enoturismo può essere uno stimolo interessante allo sviluppo soprattutto delle zone più svantaggiate, ma ovviamente deve essere seguita da misure incisive e coerenti da parte degli addetti ai lavori e delle loro organizzazioni. Ad esempio, va ripensato il ruolo dei frantoi che dovrebbero assumere un ruolo centrale per iniziative ed eventi sul territorio per tutto l’anno, mentre adesso in molti casi sono attivi soltanto per 2-3 mesi. In senso ancora più ampio, ci vuole anche un cambio di mentalità da parte della collettività per comprendere che creare le condizioni per recuperare e mantenere queste olivicolture tradizionali significa anche governo del territorio in aree difficili, prevenzione del degrado e opportunità di lavoro contro lo spopolamento delle aree collinari ed interne. Allo stesso tempo dobbiamo guardare all’olivicoltura tradizionale con maggiore apertura mentale e prevedere incentivi e strumenti normativi nuovi se vogliamo creare le basi per il loro mantenimento futuro. Ci sono poi areee vocate ove è possibile riconvertire efficacemente vecchi oliveti o piantarne di nuovi secondo tipologie moderne in modo da renderli redditizi. Quest’ultimo caso vale soprattutto per le zone pianeggianti ove è possibile essere competitivi sia dal punto di vista della produttività che dei costi di produzione, senza dimenticare l’impegno sulla qualità alla quale l’Italia è condannata per sua stessa collocazione geografica, tradizione e fattori economici.
(L'intervista con Riccardo Gucci proseguirà su altri temi, prossimamente su "Georgofili INFO")