La carrellata di riflessioni che desidero portare all’attenzione dei lettori di Georgofili Info su quella sorta di strabismo, di dialogo tra sordi che sempre più caratterizza il confronto sul tema della foresta urbana, tra la scienza, il diritto che su quei consolidati dati scientifici ha plasmato le sue norme, da un lato, e il modus operandi delle amministrazioni comunali dall’altro, prende le mosse dal monito lanciato alle amministrazioni comunali da una recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, la n. 9178 del 27 ottobre 2022, ben conosciuta da quanti auspicano una reale conversione ecologica da parte di chi amministra le nostre città, che non si risolva in un mero greenwashing. In quella pronuncia il Giudice amministrativo ha annullato un’ordinanza sindacale che imponeva il taglio di un abete secolare collocato in area urbana, in quanto non supportata da una adeguata ed inequivocabile valutazione peritale sul pericolo imminente per la pubblica incolumità sulla viabilità pubblica e nell'abitato circostante idoneo a giustificare l’abbattimento della pianta. Un richiamo dunque ad una maggiore oculatezza e ponderazione nelle scelte operate, da leggere, tra le righe, come una sorta di monito di più ampio respiro alle amministrazioni comunali, alle quali in funzione della loro maggiore vicinanza e conoscenza del territorio, il diritto affida la tutela della foresta urbana, ad abbandonare il diffuso atteggiamento tranchant nei confronti di quest’ultima che tendenzialmente le caratterizza, dove il modo di procedere per interventi random di urgenza, si accompagna alla scarsa attitudine alla manutenzione, condotta secondo consolidati criteri scientifici, delle sue componenti, arboree e non, alla mancanza di una visione lungimirante e consapevole che proietti questi temi in una dimensione di indispensabile gestione pianificata degli interventi di conservazione, valorizzazione e potenziamento del patrimonio verde urbano e periurbano.
E uso consapevolmente il termine “patrimonio” proprio per indicare la imprescindibile necessità di guardare alla foresta urbana come un bene comune dotato di una gamma di valori per la collettività sotto il profilo ambientale, sociale, economico, che hanno assunto dimensioni tali da essere oggetto di misurazioni basate su modelli scientifici. La stessa mutazione terminologica introdotta dalla FAO, da verde urbano a foresta urbana traduce sul piano del linguaggio il segnale della necessità di leggere in una nuova ottica questo peculiare profilo del paesaggio urbano e periurbano: nelle Guidelines on urban and peri urban forestry del 2016, la FAO ha definito le foreste urbane come una rete o un sistema che include le foreste, i gruppi di alberi e i singoli alberi che si trovano in aree urbane e periurbane, e le ha qualificate come “la colonna vertebrale” delle infrastrutture verdi, collegamento per le aree rurali ed urbane che migliora l’impronta ambientale di una città. In questa nuova ottica la foresta urbana assorbe nel suo significato semantico e nella sua portata funzionale le tradizionali componenti del verde urbano, identificate nel loro contenuto dalle Linee guida per la gestione del verde urbano e prime indicazioni per una pianificazione sostenibile, elaborate dal Comitato per lo sviluppo del verde pubblico: il verde storico, i parchi (giardini e ville) urbani, le aree di arredo urbano, i Rain gardens i giardini scolastici, le foreste urbane, le aree boschive, le aree sportive all’aperto, il verde attrezzato e il verde di vicinato; il verde cimiteriale, commemorativo, monumentale; il verde di connessione ecologica, il verde di mitigazione il verde incolto, gli orti botanici, i Dry gardens fino a comprendere le forme emergenti di verde urbano architettonico, il bosco verticale e i tetti verdi, cioè il c.d. verde tecnologico.
Purtroppo lo sguardo attento dei Report ISPRA, ISTAT, e delle analisi comparative condotte da Legambiente in collaborazione con Sole 24 Ore e Ambienteitalia, conferma quel tendenziale, omologato adagiarsi dei Comuni su anacronistici atteggiamenti alternativamente caratterizzati da serpeggiante indifferenza, propensione a identificare il verde urbano con qualche aiuola da allestire sulla base di canoni puramente estetici, messianici messaggi filoambientalisti che si rivelano poi mero greenwashing, visioni museali ottocentesche di componenti importanti del verde cittadino, come gli orti botanici, trascurando la straordinaria valenza ecosistemica che li connota. Sullo sfondo della propensione, troppo diffusa, a polarizzare l’attenzione, e, conseguentemente, le risorse economiche e di personale, sulla componente edificata del paesaggio urbano.
Il Consiglio di Stato ha suonato un campanello di allarme, ma direi che una sinfonia di suoni inquietanti proviene dal messaggio lanciato dal vorticoso acuirsi delle emergenze climatiche e ambientali e dalle tracce indelebili che le stesse lasciano sulle nostre città con ripercussioni scientificamente acclarate sulla salute dei cittadini.
Aprirsi alla conoscenza dei dati scientifici può aiutare chi amministra le città ad aumentare la consapevolezza informata delle conseguenze che derivano rispettivamente dall’azione e dalla inazione, del ruolo che la foresta urbana gioca come strumento, non l’unico, ma privilegiato, per arginare quelle emergenze; al contempo prendere atto che esiste un pacchetto articolato di strumenti giuridici, formulato sulla base di dati scientifici, che guidano le amministrazioni pubbliche in modo tecnico ed illuminato a progettare, pianificare, gestire e valorizzare la foresta urbana, è il primo passo per implementare le preziose indicazioni tecniche in esso contenute, ricetta amara per chi fino ad oggi ha operato nel segno della cementificazione e del consumo di suolo, ma salvifica.
Proiettare l’approccio alla foresta urbana in un’ottica di concretezza che superi i proclami altisonanti e le scelte impraticabili quali quella operata dal PNRR di finanziare progetti di forestazione urbana che conducano all’improbabile risultato di piantare 6.600.000 alberi nelle città metropolitane nell’arco temporale dal 2022 al 2024, sfociata, a fronte della evidente difficoltà di reperire un tale esorbitante numero di piante, nella discutibile scelta di contabilizzare, per il raggiungimento del primo target 2022, anche l’uso di semi finalizzati al rimboschimento, e di equiparare la semina in vivaio con la messa a dimora delle specie arboree presso le singole aree oggetto di forestazione: una scelta, questa, sulla quale la Corte dei Conti ha manifestato non poche perplessità che l’hanno spinta a sollecitare il Governo ad assumere ogni iniziativa idonea ad acquisire un pronunciamento certo della Commissione europea circa l’effettiva equiparabilità della semina o della coltivazione in vivaio alla messa a dimora in situ delle piante.