In genere nel nostro Paese l’interesse per la sicurezza delle carni di selvaggina si è cominciato a manifestare successivamente all’adozione del cosiddetto “pacchetto igiene” europeo, una serie di Regolamenti europei che nel 2004 hanno definito in modo organico gli adempimenti pubblici e privati a prevenzione e tutela della salute dei consumatori di alimenti di origine animale, compresi quelli di specie selvatiche. In realtà il “pacchetto igiene” dava compimento ad un percorso comunitario iniziato oltre vent’anni prima da direttive europee che però alcuni Stati membri hanno recepito con scarsa o nulla considerazione per la parte relativa alla caccia e alla pesca. Ad esempio, nel nostro Paese i recepimenti formalmente risultano essere stati attuati e in un contesto di storica attenzione per l’argomento (Conti et al. 2011) ma senza una implementazione da parte faunistico-venatoria, se non localmente e in quadro di generale disattenzione per lo sviluppo di attuazioni igienico-sanitarie integrate nelle attività di abbattimento.
Infatti, se il recepimento delle direttive comunitarie trovava spazio adeguato nello sviluppo della normativa sanitaria nazionale, purtroppo l’ “ammodernamento” delle norme circa la gestione faunistico-venatoria continuava a procedere ignorando queste esigenze, del tutto, a causa di una sorta di “incomunicabilità”, dovuta da una parte alla disattenzione per le pianificazioni interdisciplinari integrate e dall’altra alla affermazione di prassi venatorie errate che si sono diffuse imponendosi come pseudo tradizioni, lontanissime dalle razionali “buone pratiche venatorie pre e post abbattimento” affermatesi ad esempio nella Mittel Europa. Tali “buone pratiche”, ora europee, sono basate sulla corretta formazione già del neo cacciatore che con il progredire dei suoi interessi di carniere, specie per la grossa selvaggina, acquisisce anche aggiornamenti informativi e formativi specifici che lo collocano in un gruppo gestionale responsabilizzato e dotato di adeguate infrastrutture di gruppo o individuali che rendono le buone pratiche possibili e verificabili. In Italia invece (Ferri et al, 2012) si sono affermate pseudo tradizioni, anche pericolose, basate sulla assenza di nozioni igienico sanitarie già nel programma di preparazione all’esame di abilitazione venatoria, una carenza che permane poi anche nella preparazione del cacciatore o dell’operatore addetto alla grossa selvaggina. Peraltro il sistema gestionale ignora del tutto che “il più vicino possibile alle zone di caccia” devono essere disponibili infrastrutture fondamentali come le “celle frigorifere”, ovviamente anche di adeguata capacità, facilmente inseribili nella fitta rete di “case di caccia” già una consuetudine in larga parte del Paese ma solo per finalità di tipo ricreativo. Solo in tal modo il dissanguamento e l’eviscerazione possono avvenire in tutto agio e permettere la pronta attivazione della catena del freddo, fondamentali in un Paese che di fatto mette in atto piani di caccia e piani di limitazione numerica ormai tutto l’anno ed anzi sempre più consistentemente nella stagione calda e in quelle miti. Ciò, invece che rendere ad esempio obbligatorie le buone pratiche e la disponibilità capillare di celle frigorifere, ha al contrario ingenerato, diffuso e reso ancora più dannose pratiche antigieniche pericolose sia per la stessa famiglia del cacciatore che per i più o meno ignari consumatori che credono di beneficiare dei basi prezzi della diffusissima piaga del “mercato illegale della carne di selvaggina”, retta da praticoni irresponsabili che lavorano, conservano e smerciano selvaggina in condizioni inammissibili e al di fuori di ogni criterio di biosicurezza. Va da sé che “incidenti” tossico-infettivi-infestivi avvengono e si pretende di evitarli appiattendo la pseudo gastronomia nazionale della selvaggina su lunghe cotture (e pesanti marinature) alle quali affidare la risposta alle carenze di questa pseudo filiera. Purtroppo si tratta di una realtà che smercia notoriamente la gran parte della selvaggina abbattuta in Italia, spesso sotto l’occhio ammiccante di una tolleranza sociale che considera anche questo aspetto come accettabile caratteristica di una pseudo tradizione affermatasi negli ultimi anni. Una risposta deve pertanto imporsi e l’inversione ed il rimedio possono essere solo nella adeguata preparazione dei neo cacciatori neofiti e di quelli specializzati (Ferri et al., 2012) e nell’obbligo di disporre di adeguate celle frigorifere il più vicino possibile alle zone di caccia. Un simile percorso è partito su base volontaristica ma strutturata già dal 2006 in Emilia Romagna grazie alla stretta sinergia delle pianificazioni faunistiche e sanitarie regionali che in alcune provincie hanno favorito una forte richiesta dei corsi per i corsi ufficiali di abilitazione di “persone formate in sanità ed igiene della selvaggina” e una forte distribuzione di celle frigorifere delle case di caccia, di fatto una realtà gestionale in rapida diffusione che è anche alla base di una corretta filiera di distribuzione tramite Centri di lavorazione selvaggina riconosciuti che tramite la “distribuzione diretta al consumatore finale” e ai laboratori equiparati; con forte beneficio anche per la vigilanza passiva ed attiva sulle problematiche sanitarie degli animali selvatici, in relazione agli aspetti di prevenzione della salute umana, di quelli zooeconomici e di conservazione della biodiversità, peraltro ben ricompresi nel concetto di One Health.