Complesso è il rapporto tra società e cucina. Se da una parte e in generale la cucina usa quanto offerto dalla società, questa in molti casi è indotta a produrre quanto la cucina richiede e, in mancanza di questo dialogo, vi sono stati prodotti che per lungo tempo sono rimasti inutilizzati, come è avvenuto in Europa per la patata e il pomodoro. Nel dialogo tra società e cucina un ruolo importante hanno le migrazioni dei popoli che nell’antichità nel mediterraneo hanno diffuso il grano e pane, nei tempi della romanità la vite e vino in gran parte dell’Europa e in tempi successivi il riso portato dalle invasioni musulmane. Altrettanta importanza nella conoscenza dei cibi e delle cucine esotiche hanno avuto e continuano ad avere i commerci, ora sempre più mondializzati e, di recente, il turismo, mentre continuano ad avere un grande peso gli spostamenti di popolazioni e le immigrazioni. Oggi in Italia vi è la presenza di quasi sei milioni di nati all’estero e dai più diversi paesi, circa il dieci per cento dei residenti, un fenomeno che ha significativi riflessi sulla cucina e di conseguenza anche sulla società.
Il complesso processo attraverso il quale le popolazioni immigrate adattano stili o scelte alimentari nei paesi dove vivono è definito acculturazione alimentare, un comportamento influenzato da complessi cambiamenti psico-sociali. Se le popolazioni immigrate tendono a mantenere gli stili e le abitudini alimentari del paese d’origine, nel tempo cambiano per assimilazione di quelli del paese di arrivo, sia pure più lentamente di quanto non accade per la lingua, il modo di vestire e altri stili di vita. Nelle famiglie degli immigrati i pasti sono consumati prevalentemente in casa conservando modi di preparazione, cottura, scelte alimentari e usando anche alimenti del luogo di provenienza, che sono ricercati e acquistati in negozi etnici. Per questo in Italia, nell’ultimo decennio il mercato degli alimenti etnici, di provenienza extraeuropea e non tradizionali dell’alimentazione italiana, è raddoppiato, tanto che alcune grandi catene di supermercati gli hanno inseriti tra le loro offerte, con un giro d’affari di circa centosessanta milioni d’Euro. Non noto è il giro d’affari dei sempre più frequenti negozi etnici che vendono anche alimenti e solo a Milano hanno un ritmo di crescita del dieci per cento superiore a quelli italiani.
Contestualmente in Italia, anche sotto la spinta di quanto visto all’EXPO 2015, vi è stato un incremento di ristoranti etnici, che non sono più una novità o una moda e che soprattutto nei giovani diffondono un nuovo modo di mangiare, con diverse giustificazioni, non ultima quella economica. Oggi in Italia questi ristoranti, tra grandi e piccoli, sembrano essere circa duecentomila. La frequenza degli italiani in questi ristoranti sta orientando su nuovi gusti la loro alimentazione ed è in continua ascesa, riguardando quasi la metà della popolazione, soprattutto i giovani tra i diciotto e i trentaquattro anni che preferiscono in particolare la cucina cinese, seguita da quella giapponese, messicana e indiana.
La presenza di popolazioni immigrate, con i loro ristoranti e negozi, e i contatti tra interculturali soprattutto tra i giovani fino ai trentaquattro anni sta cambiando la cucina italiana, come dimostra il progressivo acquisto da parte degli italiani di cibi esotici, sia in negozi etnici e sia nella grande distruzione, per la preparazione di ricette piatti con ricette esotiche e etniche da parte di una percentuale della popolazione che, secondo alcune statistiche e con diversa frequenza, arriverebbe al trentacinque per cento degli intervistati.
Senza trascurare gli aspetti di sicurezza degli alimenti importati, iniziando da una loro etichettatura, indicazione di provenienza, controlli e garanzie di salubrità va considerato come la nuova tendenza di mangiare etnico possa influire sulla società e anche sull’agricoltura italiana per soddisfare le nuove richieste alimentari. Già oggi in Italia vin sono nuove coltivazioni come il cavolo pak choi (un cavolo cinese usato prevalentemente fritto o per preparare zuppe) e la jiucài (un ortaggio simile all’erba cipollina) usata come condimento delle carni di maiale, e soprattutto la coltura di varietà aromatiche di riso, iniziando dal basmati. Considerando il successo della coltivazione di un frutto esotico come il kiwi, del quale l’Italia è diventata il secondo produttore mondiale dopo la Cina, paese d’origine di questo frutto, non è azzardato pensare che altri alimenti ora etnici possano avere una produzione italiana, come nel più o meno lontano passato è successo per molta frutta e ortaggi, dalla pesca proveniente dalla Cina, ciliegia importata da Lucio Licinio Locullo dall’attuale Turchia, fino alla melanzana d’origine indiana e inizialmente diffusa dalla cucina ebraica e non mancando di ricordare il pomodoro e la patate d’origine americana.
Molte sono le coltivazioni esotiche nelle quali l’agricoltura e soprattutto l’orticoltura italiana possono trovare nuove possibilità di sviluppo. Oltre i già citati risi aromatici e il teff (cereale etiope ed eritreo) e i cereali non graminacei come l’amaranto e la quinoa, vi sono ortaggi quali l’okra (gombo o bamia, ortaggio africano), il già citato pak choi, il coriandolo (i suoi semi sono un ingrediente del curry), la zucca asiatica (Benincasa hispida), il kangkong (spinacio d’acqua della Thailandia e Indonesia), il lal shak (spinacio rosso indiano), il labanos o daikon (simile al ravanello, usato nella cucina giapponese, coreana e vietnamita), la korola (o ampalaya, zucchina asiatica), il sitaw (fagiolino asiatico), la mizuna (crucifera con sapore leggermente piccante giapponese). Non è inoltre da escludere che i cambiamenti climatici in atto possano favorire la coltivazione in Italia di altre specie vegetali subtropicali, che ora possono essere soltanto importate.