La prospettiva scientifica e gli sforzi dei ricercatori e di tutti gli attori del sistema agroalimentare sono oggi sempre più tesi a realizzare e garantire “innovazioni” del e nel
prodotto mirate al miglioramento della qualità degli alimenti, della sostenibilità ambientale, del risparmio energetico: dal punto di vista di chi si occupa di
Cultural studies suona come un’esortazione atta a realizzare strategie (tecniche e produttive) che siano in linea con gli stili di vita e di salute oggi richiesti.
E’ un cambiamento di senso impegnativo e insieme inderogabile che investe, nel caso specifico, la sfera
culturale dell’iter
vitale (naturale) della carne bovina lungo l’intera filiera: senso ormai da tempo non più riconducibile a simboli tradizionali dei secoli passati. Ma evidentemente un qualche recupero del passato pare urgere alle porte di consumatori e di attori del sistema come tentativo di ripristino, in forme nuove, dell’archetipo ottocentesco dell’«amato» e «pio bove» che solenne guarda «i campi liberi e fecondi», il cui mugghìo «nel seren aer si perde» e nel cui «occhio glauco» si rispecchia «ampio e quieto/ il divino del pian silenzio verde» di carducciana memoria. Una nuova sensibilità si va affermando anche per scongiurare il pericolo che si avveri la “profezia” lanciata da Emilio Salgari nel suo formidabile romanzo di fantascienza
Le meraviglie del 2000 del 1907 (riedito da Transeuropa, 2011): «Mio caro signore la popolazione del globo in questi cento anni è enormemente cresciuta e non esistono più praterie per nutrire le grandi mandrie che esistevano ai vostri tempi. Tutti i terreni disponibili sono ora coltivati intensivamente per chiedere al suolo tutto quello che può dare. Se così non si fosse fatto a quest'ora la popolazione del globo sarebbe alle prese colla fame».
La sensibilità ecologica –diffusa nei paesi industrializzati, del benessere e del consumo- seppur animata da pulsioni fondamentaliste spinge verso la richiesta di una analisi integrata fra le discipline tecniche, scientifiche, economiche e quelle definite umanistico-sociali anche per meglio comprendere i comportamenti collettivi.
Infatti ciò che si definisce come
prodotto contiene al suo interno una pluralità di realtà dato che il cibo – in questo caso: la carne bovina- come tutti i cibi non è solo mezzo o materia ma è oggetto e valore culturale, simbolo e mito, lavoro, responsabilità, salute; tanto più se la produzione e il consumo di carne bovina investono anche l’altra realtà che è quella della tutela dell’ambiente, della salute della “casa comune” (dall’etimo di “ecologia”: οἶκος "casa" e λόγος "discorso").
Si profila all’orizzonte un’altra “profezia” di Salgari che occorre non si realizzi: «I grandi pascoli dell'Argentina e i nostri del Far-West non esistono più ed i buoi ed i montoni a poco a poco sono quasi scomparsi non rendendo le praterie in proporzione all'estensione».
I dati più recenti relativi ai consumi di carne bovina in Italia non mi sembrano particolarmente “brillanti” registrando un progressivo calo a vantaggio del consumo di carni di pollame e/o di maiale così dette
bianche. Dal punto di vista di chi non si occupa di marketing e pubblicità (se non per “leggerla”, analizzarla come
testo informativo e insieme performativo e prescrittivo) appare evidente che qualche fattore spinge nella direzione non positiva dei consumi di carne
rossa; un fenomeno da “leggere” e interpretare entro l’attuale scenario di sublimazione mediatica del cibo: il discorso, le “narrazioni” del cibo, ricette e ricettari,
chef-star, sfide, concorsi (con relativo apparato di giurie e giurati) sono diffusi in tutti i media. In questo contesto potrebbero pesare sul calo dei consumi massicce campagne di de-mitizzazione e di messa al bando della carne rossa dettate da diffusi
modelli dietetici-salutistici-medicali; pesano anche (ma non solo) campagne (sublimate dai media) in attacco e in difesa da morbi, virus, epidemie recepite dai cittadini italiani globalizzati come imminenti, vicine e soprattutto certe, sicure rientrando invece nella “fenomenologia della paura” ben investigata da Zygmunt Bauman in
Paura liquida ( Laterza, 2006) quale vero paradosso diffuso nei Paesi sviluppati (anche a livello culturale e scientifico) che alimenta la miccia dell’insicurezza.
In questo scenario di insicurezza (ove non a caso
sicurezza è divenuto slogan politico globale) il calo dei consumi di carne
rossa e il fondamentalismo vegano possono apparire come il risorgere di un’era ancestrale in cui il sacrificio animale portava con sé l’idea del sangue e della violenza? La carne bovina è abbinata all’idea del sangue, è comunemente definita “carne rossa”:
rosso, il colore del sangue e del vino metafora sacra del sangue (e del sacrificio).
Sul finire degli anni ’50 del ‘900, in
Mythologies (tr.it.
Miti d’oggi, Einaudi), Roland Barthes individuava nella bistecca cotta al sangue uno fra i grandi miti della società francese d’epoca: segno, anche, di un benessere economico ormai diffuso ma non solo, diceva Barthes, segno dell’affermarsi di un mito e di un codice del
sacrificio, di una voglia di crudità che da un lato rinviavano alla natura e dall’altro al motivo della forza, della vita: il sangue è vita, la carne è forza; dunque, per Barthes, l’assimilare mangiando carne ciò che il bovino ha già assimilato come natura è per l’uomo riproporre e interpretare un ciclo naturale laddove è naturale anche sbranar(si). Ma questo, in Barthes, era un modo sottile di affermare che per il piccolo borghese francese di quegli anni vivere secondo natura significava sbranare, mangiare carne e sangue (altrui, non solo bovina) per garantirsi la forza e la vita.
I tempi e la società, da allora, sono cambiati; oggi, a quanto pare, al
rosso, al
sanguigno, alla carne bovina preferiamo altro, come se non avessimo più fame di carne
rossa; il “sacrificio” e la violenza sull’ animale ci turbano forse perché sollevano richiami inconsci a sacrifici,violenze non animali dai quali siamo purtroppo inondati: quanto più il
rosso sangue (umano,concreto) si propaga in tutti gli schermi tanto più siamo spinti verso il rifugio simbolico del
bianco, del rassicurante
verde vegetale, verso il
nero del pane oggi simbolo salutistico un tempo segno di povertà, verso il nero-verdastro dell’alga nori per il sushi: spinti persino verso l’artificiale vegetale o l’artificiale in pillole, come predetto dal fantasioso (?) Salgari più di cento anni fa: «D'altronde non abbiamo più bisogno di carne al giorno d'oggi. I nostri chimici in una semplice pillola dal peso di qualche grammo fanno concentrare tutti gli elementi che prima si potevano ricavare da una buona libbra di ottimo bue».
Viviamo l’epoca paradossale della sublimazione culturale e mediatica di due contrastanti miti: da un lato, il cibo -in tutte le sue possibili declinazioni di senso, compreso quello dei “luoghi” del cibo e dei “personaggi” del cibo- e la dieta dall’altro; dieta che se intesa nel pieno significato etimologico (dal greco δίαιτα = abitudine, modo di vivere) e non nel senso comune, prosaico oggi diffuso (= restrizione alimentare) potrebbe fungere positivamente nel destino/consumo della carne bovina ma che invece si propaga come controllo/restrizione alimentare imponendo crudità vegetali, bacche, pesce crudo (apprezzato in quanto esotico) e il massiccio recupero di proteine vegetali (si assiste infatti ad un impennata di vendite di fagioli, legumi et alia).
In questo scenario, il “prodotto” carne bovina dovrebbe dunque essere offerto, reso pubblico, pubblicizzato come “innovativo” in quanto: a) rispettoso della natura-ambiente in quanto “casa comune” e della natura-animale cioè dell’igiene, del benessere dell’animale dalla nascita alla sua (il più possibile serena) morte; b) la carne bovina dovrebbe essere pubblicizzata in quanto prodotto/cibo con contenuti (“valori”) nutrizionali e dietetici “progettati” a monte e ben indicati in etichetta: forse solo così il destino del consumo della carne rossa potrà cambiare.
Da parte mia, in conclusione, elevo un peana (di vittoria, non di guerra) al ritorno italiano, da qualche anno, di un grande marchio, di una storica realtà alimentare nostrana: la Simmenthal.
Sulla cui storia andrebbe scritto un romanzo e prima o poi lo farò. Provvidenziale in quanto estemporanea, immediata risorsa di carne da servire in tavola per casalinghe ritardatarie (non solo in estate), compagna fedele dei miei spuntini da pendolare, dei nostri spuntini in barca per mare, inalterata nel suo guscio metallico con tanto di muccona pezzata sempre uguale da anni, identica nel gusto, anzi quasi una sorta di biscottino di Proust che quando l’assaggi ti si riapre il tempo perduto, ritorna il passato che diviene presente. Quale barretta energetica, quale pasto alternativo in pillole o scatole, quale bustina di bacche di gojii, quale bruco soffritto può reggere il confronto con quell’essenza compatta e aromatica di carne con tanto di gelatina che per altro puoi mangiare in piedi e pure senza piatto?
L’immutabilità della Simmenthal – ora che pare sia cambiata anche la Nutella- è un primato inossidabile, un punto fermo: è il simbolo di un accurato, paziente, tradizionale processo di cottura come fatto in casa perché da lì nasceva, simbolo della cura essenziale, senza codini e fronzoli, nella “mise en plates” con l’unica civetteria della “sua” gelatina, simbolo dell’immediatezza, la rapidità, la velocità tutta moderna dell’assaggio e del consumo. E con tanto di etichetta nutrizionale bella e stampata a sedare i nostri scrupoli salutistici.
* Ordinario di Critica letteraria e Letterature comparate, Dipartimento DIBAF, Università degli Studi della Tuscia.