In Europa, si sono manifestate due tendenze sul modo di salvaguardare i boschi: una razionalista (o classica) e una naturalistica o romantica.
La selvicoltura classica si ispira al bosco di alto fusto coetaneo. L’insieme delle particelle destinate all’avvicendamento è sottoposto ad una completa progettazione: turno, diradamenti, ecc. E’ un criterio che permette prescrizioni di amministrazione e di polizia forestale semplici ed univoche e che, quindi, ha dato all’uso razionale dei boschi un contributo essenziale alla portata di servizi forestali di rapida istituzione. Però la foresta rimaneva spartita (e, se si vuole, imbruttita) in un mosaico di particelle di età graduata. Allora, fu osservato che sotto l’uso umano i boschi rimangono inevitabilmente imbruttiti; la tecnica fa il possibile per limitare l’impatto, ma non può fare miracoli.
La selvicoltura naturalistica si ispira al bosco disetaneo; essa è detta anche selvicoltura romantica per l’accostamento alla natura, per il rifiuto delle regole e di ogni calcolo e per l’approccio sentimentale ed estetico. In ogni particella, i tagli, molto moderati e susseguiti a breve periodo, modellano un popolamento composto da piante di più età: dal grande albero, alla chiazza di rinnovazione. Al gestore si lascia piena libertà di azione, salvo valutare il risultato di periodici inventari di monitoraggio. Tuttavia era importante anche la professionalità, per questo lo svizzero Henri Biolley completò la sua proposta con una scuola di aggiornamento e di addestramento. Secondo Biolley, inoltre, il bosco era come una famiglia: una comunità di organismi tenuti uniti da un bisogno di effettiva solidarietà in cui, per esempio, i piccoli sono allevati dai grandi.
La versione tedesca della selvicoltura naturalistica (dovuta ad Alfred Moeller) si basava su interventi analoghi anche se un poco più eclettici. La base teorica era l’idea del bosco come un organismo composto da organi che agiscono assieme e stanno reciprocamente in una condizione di scambio. Gli alberi sono le cellule e un taglio ben fatto corrisponde ad un loro fisiologico ricambio. In sostanza: i forestali i classicisti vedono il singolo albero come entità coltivabile indipendente, i romantici, invece, vedono il bosco come complesso di alberi in reciproca dipendenza. Sul tema del bosco come organismo sono intervenuti anche i botanici che, ovviamente, hanno preso in considerazione ogni tipo di comunità vegetazionale.
Il Clements, fondatore dell’Ecologia vegetale ed autore che ha elaborato i concetti di “successione”, “serie” e “climax”, considerò le comunità vegetali come organismi dotati di individualità. Ogni pianta vive in delicato equilibrio con le altre, mentre tutto l’aggruppamento si evolve fino al preordinato stadio di maturità.
Per Braun-Blanquet (il fondatore della Fitosociologia), l’associazione è un aggruppamento vegetale più o meno stabile ed in equilibrio con il mezzo ambiente, in cui certi elementi esclusivi o quasi (“specie caratteristiche”) rivelano con la loro presenza un'ecologia particolare ed autonoma. Il ricorrere di gruppi di specie in più luoghi non indica tanto legami organici fra di esse quanto la comune esigenza per un dato tipo di ambiente.
Giovanni Negri nega drasticamente ogni analogia con l’organismo. Le fitocenosi non sono altro che aggruppamenti stabiliti arbitrariamente per opportunità di studio. Per il resto, la fitocenosi è “una collezione di individui vegetali strettamente autonomi, fortuitamente immigrati e mantenutisi per l’influenza di alcune esigenze fondamentali comuni, e come risultato di episodi di concorrenza”; una forma di commensalismo, priva di collaborazione reciproca fra individui che vivono ciascuno secondo la sua ecologia individuale.
Per Valerio Giacomini è vero che gli aggruppamenti vegetali, non possiedono alcuna organizzazione centralizzata o divisione del lavoro, ma neppure possono essere svalutati come se fossero prodotti esclusivamente del caso, perché un certo numero di aspetti vegetali si ripete con sufficiente costanza di composizione col ripetersi di certe condizioni ambientali.
I risultati degli studi sul ripopolamento postglaciale delle nostre montagne convalidano l’aspetto della vegetazione come complesso di migranti. Negli Abieti-Faggeti, di cui tanto si è parlato come associazione stabile, il faggio è sopraggiunto alcuni millenni dopo l’abete. Allo stesso modo, nei Querco-Carpineti e negli Orno-Ostrieti, i due carpini si sono aggiunti solo dopo il 1000 a.C. Questi tempi non lunghi di convivenza rendono molto improbabile ogni forma di coevoluzione.
A questo punto ogni teoria sul bosco come unità organica sembra alle corde. Il Tansley, dopo avere quasi a malincuore abbandonato l’analogia fra la comunità vegetazionale con un organismo, viene alla proposta dell’”ecosistema” che è l'insieme degli organismi viventi (fattori biotici) e della materia non vivente (fattori abiotici) che interagiscono in un determinato ambiente costituendo un sistema autosufficiente ed in equilibrio dinamico (lago, stagno, savana, ecc.). Dunque, per non perdere la concezione d’insieme, adotta il più generale concetto di sistema ed esce dallo stretto ambito della vegetazione allargando al campo ai fattori da cui la vegetazione dipende.
La proposta del Tansley si collega al movimento scientifico sulla complessità. In fisica teorica un “sistema complesso” è un sistema in cui le singole parti influiscono l’una con l’altra con interazioni di breve raggio d'azione. La scienza può rilevare le modifiche locali, ma non può prevedere uno stato futuro del sistema. Sono esempi di sistemi complessi il clima globale della Terra, singoli organismi, il cervello umano e lo sviluppo delle città. Sandro Pignatti ha dato un ottimo esempio di analisi dell’ecosistema forestale come sistema complesso. Secondo il filosofo Edgar Morin, lo studio dei sistemi complessi, che sono imprevedibili, ha imposto l’abbandono della ricerca delle leggi di natura.
Valgano come conclusione le parole di Michael Crichton (regista del film Jurassic Park).
“Noi esseri umani interagiamo brillantemente con sistemi complessi. Lo facciamo di continuo, senza pretendere di capirli. Tentiamo solo di gestirli. Gestire significa interagire con il sistema: fare qualcosa, aspettare di vedere la reazione e poi fare qualcos'altro nel tentativo di conseguire il risultato voluto. Ciò che ha luogo è una infinita interazione iterativa basata sul presupposto che non sappiamo con certezza come risponderà il sistema: dobbiamo stare a vedere. Magari abbiamo la sensazione di sapere ciò che accadrà. Magari spesso ci azzecchiamo. Ma non siamo mai sicuri. Quando interagiamo con il mondo naturale siamo privi di ogni certezza”.
(Il testo è una sintesi della lettura tenuta all’Accademia dei Georgofili il 22 febbraio 2018)