Secondo Omero, i Lotofagi, che erano gli antichi abitanti della Cirenaica, si cibavano dei frutti di loto che, offrirono ai compagni di Ulisse, inviati in esplorazione, facendo perdere loro ogni ricordo del passato e delle loro case, nonché ogni preoccupazione per l’avvenire, non desiderando altro che restare in quel paese e nutrirsi dei loti. Il medico genovese Paolo Della Cella, vissuto in Libia nella prima metà dell’800, nel volume “Viaggio da Tripoli di Barberia alle frontiere occidentali dell’Egitto”, a tal riguardo scrive:“
…. dà tempi Omerici fino à nostri, è stato parlato, sotto nome di Lotofagi, di una singolare razza di popoli, che vivevano fra le grotte degli scogli che cingono la Sirte minore, e traevano tutto il loro nutrimento dal Loto. Il frutto soavissimo di questa pianta, che ebbe a far dimenticare Itaca à compagni di Ulisse, onde bisognò legarli sul cassero, per rapirli da questa terra fatale, fu soggetto delle ricerche di molti botanici. Non ha gran tempo, che il celebre botanico Des-Fontaines credette riconoscere, né luoghi stessi indicati da Omero, questa pianta nel Ramnus Lotus L., e vel riconobbe insieme à discendenti degli antichi Lotofagi, che tuttora abitano le sponde scoscese della Sirte minore, e di Loto si nutriscono; ma non creda per questo, che dè miei lotofagi sia meno nobile la stirpe, e non possano essere innestati sugli antichissimi ceppi illustrati dai greci scrittori”. ……
Il mitico Loto dovrebbe quindi essere la Ramnacea
Ziziphus jujuba (FOTO), già nota come
Rhamnus lotus, diffusa in Nord Africa, i cui frutti, le giuggiole, sono piccole drupe, delle dimensioni di un’oliva, chiamate anche "datteri cinesi". La polpa è biancastra, farinosa, di sapore neutro o leggermente dolce acidulo. Il Della Cella prosegue il suo racconto sui costumi dei Lotofagi citando un aspetto di interesse apistico…...
”Quanto al cibarsi di solo Loto, se la cosa sta, bisogna dire, che i moderni lotofagi abbiano, anch’essi, alquanto rilasciato il tenor di vita dei loro antenati. Attualmente un mele delicatissimo forma il principale elemento della loro sussistenza; lo raccolgono dà cretti di queste rupi, ove annidano foltissimi sciami di api, attirate qui dall’olezzo di continua primavera, e dà ruscelletti che vi discorrono. Di questo loro prodotto fanno traffico cò Bedoini, e ne prendono in iscambio burro, farina d’orzo, e lane per ricoprirsi”.Anche l’apicoltura doveva essere importante già ai tempi della colonizzazione greca, epoca a cui risale il mito dell’eroe libico Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, che avrebbe appreso dalle ninfe l’arte di allevare le api, di coltivare la vite, l’olivo e di fare il formaggio, conoscenze da lui diffuse in tutta la Grecia e nelle colonie. In Sicilia Aristeo fu onorato dai pastori e una sua statua era collocata nel tempio di Bacco a Siracusa. La città di Cirene era il centro principale della Pentapoli Libica o “Regione delle cinque città”. Fu fondata nel 640 A.C. dal Re Batto che guidò gli esuli greci di Thera fin sulle coste libiche seguendo le indicazioni dell’oracolo di Delfi. Devastata da una rivolta ebraica nei primi anni del II secolo dopo Cristo, venne ricostruita dall’imperatore Adriano ed è rimasta, sino alla invasione araba del 643 d.C, una città greco-romana vitale e un importante centro di commerci tra l’Africa e i Paesi circumediterranei.
Foto sotto: Cirene e Aristeo