Sulla giacca ha una piuma che ricorda quelle degli Apache, come il taglio dei capelli che si intravede da ciò che fuoriesce dallo scaldacollo che porta alzato fino agli occhi. Sul petto scende una collana con il TAU di San Francesco. Ha gli occhi scuri, penetranti. Bucano come spilli. È gentile, ma incute soggezione.
Perché si fa chiamare Capitano Ultimo?
Capitano ormai non ha più molto senso, dato che sono fuori dalla battaglia, ma ho scelto di chiamarmi Ultimo quando sono entrato in clandestinità, secondo la strategia di lotta alla mafia messa a punto dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, perché ho passato la mia vita in un mondo di “primi”. Ma il voler primeggiare a tutti i costi non mi appartiene, la trovo una mentalità fastidiosa e molto meschina. Per questo motivo ho scelto di chiamarmi Ultimo.
Lei ha catturato Totò Riina nel 1993, infliggendo un grave colpo alla mafia. Eppure, nel maggio dello stesso anno c’è stata la bomba in via dei Georgofili. Perché?
Si è trattato molto semplicemente della prosecuzione dello stragismo corleonese condiviso dai vertici di Cosa Nostra, era un periodo molto buio della politica criminale e il compito assoluto era quello di indebolire a tutti i costi le istituzioni tenendo uniti, al contrario, i mafiosi che erano al 41 bis.
Oggi sono all’Accademia dei Georgofili per rendere onore alla famiglia Nencioni e allo studente Dario Capolicchio e non solo, io rendo onore a tutti i caduti per mano della mafia e della sua strategia vigliacca. Desidero rendere omaggio anche alla città di Firenze che fu accanto all’Accademia dei Georgofili nella ricostruzione, ribadendo la nostra natura di “maledetti toscani” (Capitano Ultimo è nato a Montevarchi ndr) che non sopportano la prepotenza e l’autoritarismo, né dei nazifascisti né dei mafiosi. Voglio ricordare qui anche tre persone semplici, contadini toscani, che nel 1943 vennero barbaramente uccisi dai tedeschi a Bucine: Antonio Gambini con suo figlio Silvano di 16 anni ed Ernesto Genti. Altri innocenti, morti senza un perché.
Lei vive ancora sotto scorta dopo 30 anni, perché?
Sono un bersaglio prioritario per la mafia. Nel 2006, cioè anni dopo la cattura di Riina, quattro collaboratori di giustizia hanno fatto il mio nome, indicando le intenzioni dei vertici mafiosi di uccidermi. Quando fu arrestato Bernardo Provenzano, quello stesso anno, fu trovato sul suo comodino il mio libro “L’ Azione tecnica di lotta anti-crimine” con sottolineati i passaggi in cui mi riferivo alla strategia ideata dal Generale Dalla Chiesa. Gioacchino La Barbera riferì in udienza pubblica che il boss Leoluca Bagarella aveva proposto un miliardo di lire in regalo ad un Carabiniere che forniva notizie a Cosa nostra per avere informazioni su dove alloggiavo.
Le pesa aver rinunciato ad una vita di relazione cosiddetta normale per il suo lavoro?
Assolutamente no. Ho sempre considerato e considero tutt’ora un grande privilegio combattere per il popolo, per la gente semplice. Sono cresciuto in piccoli paesi di campagna in cui tutti si aiutavano gli uni con gli altri e questo è stato per me un insegnamento di vita. E poi, non sono mai stato da solo, perché tra soldati si vive come tra fratelli, si divide tutto, compreso il pericolo. Nutro la massima stima nei confronti dei gradi più bassi dell’Arma, sono ragazzi giovani, di famiglie semplici, che combattono ancora con pochi mezzi. Voglio ricordare che un’ora di straordinario per un agente o un carabiniere fa la scorta viene retribuita con 7 euro.
Lei continua ancora a prestare la propria opera in aiuto dei più deboli attraverso un’associazione che ha fondato, https://www.volontaricapitanoultimo.it/, cosa fate?
Purtroppo che non sempre tutto finisce bene, ci sono alcune delle persone aiutate da noi che si danno alla malavita … però poter aiutare chi è in difficolta è la mia missione. Soprattutto i loro occhi, non te li levi di dosso. E sono gli stessi occhi che ho visto nei feriti per la vile mano mafiosa e criminale. Cerchiamo di fare del bene, abbiamo una casa-famiglia con anche ragazzi minorenni, offriamo pasti caldi, un letto e una doccia a chi ne ha bisogno.
Una domanda alla quale ha risposto moltissime volte: ci parli dell’”operazione Belva” che portò alla cattura di Riina.
Premetto che la Procura della Repubblica di Palermo, definita dallo stesso Paolo Borsellino un “covo di vipere”, fece di tutto per impedire che i carabinieri portassero a segno la loro missione. Cercavano di sviare le nostre azioni commissionandoci delle perquisizioni, invece noi volevamo seguire (e lo facemmo) i fratelli Sansone, imprenditori edili che coprivano e aiutavano Riina. Così arrivammo a lui.
Quando lo abbiamo catturato, mi sono trovato davanti un uomo terrorizzato che aveva una paura pazzesca di morire e ci chiedeva “chi siete?”. Ecco, mi hanno insegnato ad avere rispetto per i prigionieri ma ho fatto fatica davanti a tanta vigliaccheria, ripensando al coraggio con cui invece mio nonno aveva affrontato la morte.
Desidero anche ricordare che in quei momenti di battaglia tutto si svolge rispettando una tecnica precisa, senza emozione; l’etica per un carabiniere e per qualsiasi militare è di combattere dentro le regole, per tutelare tutti e portare a casa il risultato.
Un ricordo di Falcone e Borsellino?
Conoscevo bene Giovanni Falcone e ho visto con i miei occhi il suo progressivo isolamento da parte dei suoi stessi colleghi magistrati, la sua umiliazione ed emarginazione. Quando lo vidi nell’obitorio di Palermo, a parte le ossa che gli uscivano dalle gambe, sembrava sereno, come se sorridesse sotto i baffi. Invece la moglie, Francesca, mi sembrò piccolissima. Uno non è mai preparato a vedere le donne come vittima di una strage così vile.
Dopo la cattura di Riina ha fatto altre esperienze professionali al NOE (Nucleo Operativo Ecologico) e come Assessore all’ambiente in Calabria. Come è stato cambiare ruolo?
L’esperienza in Calabria è stata bellissima. Sono stato assessore per un anno e otto mesi grazie a Jole Santelli, allora Presidente della Regione, che conoscevo personalmente e che mi chiamò a rivestire questo ruolo. Sono rimasto colpito dalle potenzialità, dal talento, dalla cultura e dalla dignità di un popolo che reagiva contro la ‘ndrangheta sebbene fosse stato abbandonato dal governo centrale. Organizzammo un gruppo di 404 comuni per realizzare “comunità energetiche rinnovabili” e gestire volontariamente la progettazione ambientale, un modello che andrebbe esportato in tutte le regioni e che purtroppo finì con la tragica fine di Jole Santelli (morì nel sonno il 15 ottobre 2020 all'età di 51 anni, a otto mesi dal suo insediamento a Palazzo degli Itali, nella sua casa di Cosenza, a causa di un'emorragia interna dovuta a delle patologie tumorali di cui soffriva ndr).
Per quanto riguarda i reati ecologici, da quel che ho potuto vedere, si tratta sempre di reati che sono un mezzo e non un fine. Un mezzo utilizzato dalla collusione tra politica e malavita, sempre associati ad appalti e reati di corruzione e concussione. Non bisogna abbassare la guardia.
In foto: Capitano Ultimo con il Presidente dei Georgofili, Massimo Vincenzini.