L’urbanizzazione ha di fatto invaso - e in buona parte cementificato - le nostre campagne. I disastrosi effetti (riduzione della superficie coltivata, alluvioni e frane, decadenza ambientale e paesaggistica, ecc.), sono molto evidenti in quelle aree che nelle mappe di un tempo venivano definite "verdi" o "agricole" e che oggi vengono invece significativamente chiamate "aperte". Una visione panoramica dall’alto ormai difficilmente consente di individuare neppure le due aree (“agricole” e “rurali”) che gli interventi della PAC oggi intenderebbero distinguere fra loro, usando termini di origine latina e già da tempo ormai considerati sinonimi.
Molti si sono qualificati difensori, pianificatori e conservatori del paesaggio, sia delle aree "agricole" che di quelle “rurali”. Si è coniato anche il nuovo termine di “ruralisti” per coloro che si dedicherebbero a questa specifica professione. Di recente si è cominciato a parlare, come se nulla fosse, anche di “agricoltura paesaggistica”, fingendo di ignorare che i paesaggi agricoli sono sempre stati mutevoli negli anni e cangianti nelle stagioni, con continue evoluzioni attraverso i millenni. Oggi, invertendo l’ordine dei due termini “agricoltura” e “paesaggio” e la loro non reciproca aggettivazione, qualcuno pensa forse di poter sottintendere qualcosa che non ha il coraggio di esprimere chiaramente. Come, ad esempio, lo sviluppo delle attività professionali per progettare e pianificare anche l’agricoltura, utilizzando gli attuali improvvidi strumenti urbanistici delle "pianificazioni territoriali e paesaggistiche". Gli stessi soggetti responsabili di ciò che è avvenuto negli ultimi decenni, vorrebbero riaccreditarsi per continuare a condizionare e danneggiare le attività agricole imprenditoriali. Queste invece devono innanzitutto produrre ed essere sempre necessariamente innovative e competitive per continuare a fornire un indispensabile reddito e sostenere il PIL nazionale.
Qualsiasi pianificazione imposta tende ad offrire alle imprese un ruolo di interesse pubblico, che dovrebbe quindi essere a carico dello Stato (cioè dei contribuenti), anche attraverso le attuali forme di sussidi, destinati a divenire insufficienti e aleatori, o comunque essere dispersi a pioggia per sostenere un numero quanto più elevato possibile di “coltivatori” (elettori) i quali, non avendo alcun interesse diretto, forniranno risultati sempre più scadenti.
Sia quindi ben chiaro: esiste solo un paesaggio agricolo cangiante. Quello naturalmente offerto dalla complessa ma unica e vera agricoltura (senza bisogno di altri specifici aggettivi), capace di produrre utili e contribuire a "nutrire il pianeta".
Cfr: La Nazione, 29/06/2014
Foto di Giuseppe Sanfilippo (da : www.italia.it)