La storia dell’agricoltura coincide con la storia della civiltà da noi conosciuta. Sono circa ventimila anni di storia che sono partiti dalla prima incisiva rivoluzione della storia dell’umanità. È accaduto quando gli esseri umani si sono organizzati in società stanziali, abbandonando il nomadismo che aveva caratterizzato le comunità umane preistoriche. Il passaggio che rappresenta la prima e più importante rivoluzione della storia dell’umanità, anche se largamente trascurata o dimenticata, si basa su una scoperta acquisita dai nostri antenati: la governabilità della terra in funzione della produzione di cibo per la sopravvivenza. Questo non significa che il nomadismo legato alla caccia cessi d’un tratto. In aree periferiche del mondo, lontane dai grandi processi di civilizzazione, le civiltà nomadi sono sopravvissute. Per fare un esempio, la conquista dell’Ovest nel continente nord americano ha messo in contatto ancora nel corso del XIX secolo la civiltà occidentale con “la civiltà del bisonte e del cavallo” che mantenevano costumi plurimillenari di sopravvivenza tramite la caccia al bisonte.
In realtà, i processi storici anche rivoluzionari richiedono dei tempi storici differenziati nella loro diffusione. Tuttavia restano tali. Circa 20.000 anni fa o poco più l’agricoltura è divenuta la struttura portante della civiltà umana. Le società si sono organizzate per essa e da essa. Essa ha prodotto modelli di credenza e gerarchie sociali. Un dato del tutto innovativo nella comune mentalità è stata la percezione che gli esseri umani potevano controllare l’ambiente naturale e condizionarlo alle proprie necessità. Prima i cicli naturali pesavano come condizionamenti insuperabili nella trasmigrazione degli animali da preda; ora i cicli naturali restavano dominanti, ma potevano essere sfruttati ai fini della sopravvivenza umana.
Certo non tutto era governabile. Le stagioni potevano essere più propizie o addirittura nefaste. Potevano generare abbondanza o carestia. Questo era non governabile, dipendeva dalla natura ossia dalla divinità. Quindi le società divenute stanziali e basate sulla variabilità della produzione agricola esprimevano una cultura religiosa e degli individui deputati al culto della divinità, i sacerdoti appunto. Questi erano gli intermediari con Dio e deputati a conquistarne la benevolenza. Perché gli esseri umani della nuova civiltà stanziale hanno presto scoperto che la vita individuale e collettiva è precaria e finita, ma che anche le condizioni di sopravvivenza determinate dal frutto dei campi sono precarie. Per contenere e governare queste precarietà e in primis per metabolizzare la morte era necessario che una casta di sacerdoti propiziasse i favori della divinità. Così sono nate le gerarchie sociali e anche quando esse presumevano di laicizzarsi conservavano della loro legittimazione originaria la sacralità del divino. Nessuna autorità umana poteva essere e operare senza l’investitura divina o essendo essa stessa parte della divinità.
Le gerarchie sociali si articolavano e divenivano sempre più complesse. Ma la radice di esse restava la terra: terra come sovranità o terra come possesso. L’importanza e l’estensione della terra era quindi termometro di potere e di ricchezza. La baronia, la contea, il marchesato, il principato esprimevano gerarchie sociali che tuttavia si scontravano e subivano l’urto di una seconda rivoluzione, molto più modesta e contenuta rispetto alla prima, che ha dato vita alla civiltà stanziale, ma foriera di grandi sviluppi: la civiltà comunale. Nel borgo che spezza l’economia dell’autoconsumo feudale nasce una nuova classe, la borghesia, dedita a una nuova attività economica, il commercio. E attorno ad essa, nel borgo si sviluppa un’attività manifatturiera che definiamo artigianale che assieme alla borghesia commerciale promuove la crescita di ceti nuovi che non sono espressione diretta della terra e della sua produzione e anche per questo sono laici nella cultura e nella mentalità. La loro ricchezza non è affidata alla aleatorietà delle stagioni, ma alla individuale capacità di curare i propri interessi.
Ci vorranno secoli perché la lenta diffusione di queste nuove categorie sociali arrivino a sfidare il potere costituito dell’aristocrazia. E ci vorranno due rivoluzioni per sconvolgere la trama di una società che aveva nella terra e nei suoi prodotti il fondamento della propria esistenza e delle proprie rigide gerarchie sociali: la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese. La prima sposta la centralità economica dal settore primario a quello secondario. Le capacità di produrre valore aggiunto dell’industria manifatturiera ha una crescita esponenziale che riduce progressivamente il peso relativo della produzione della terra. Mentre borghesia e proletariato divengono i nuovi ceti dominanti in una società che si secolarizza. La transizione dura il secolo lungo che parte nella seconda metà del XVIII secolo e arriva alla Grande guerra. Durante questo secolo lungo muore il vecchio mondo e nasce il nuovo. Declina il valore relativo della produzione agricola rispetto al resto del prodotto, declina il numero degli addetti e declina la terra e la sua ricchezza come espressione di status sociale. Quando arriviamo alla stagione del boom economico il prodotto della Fiat da solo corrisponde al valore del prodotto di tutta l’agricoltura nazionale.
Oggi forse siamo di fronte a un nuovo processo rivoluzionario. La salvezza del pianeta richiede una rivoluzione ambientalista in tutti gli approcci del nostro vivere. Il governo della terra e dell’ambiente torna al centro della civiltà umana: per il sostegno alimentare di una umanità che viaggia verso i dieci miliardi di individui e per la sopravvivenza del genere umano l’agricoltura ripropone la sua centralità.