Professoressa Parisi, sulla base delle proiezioni di crescita della popolazione, la FAO ha stimato che fino al 2030 saranno richiesti ogni anno almeno 40 milioni di tonnellate aggiuntive di prodotti ittici per mantenere l’attuale consumo pro capite annuo mondiale, eppure l'acquacoltura è una disciplina piuttosto recente: quando si è diffusa?
La forma moderna dell’acquacoltura, nei Paesi occidentali, è iniziata intorno agli anni ’70 del secolo scorso, anche se forme di acquacoltura molto semplici, spesso limitate ad una semplice stabulazione degli animali di origine selvatica, risale ad epoche ben più lontane.
Che tipo di impatto ha sull'ambiente l'acquacoltura intensiva?
L’acquacoltura è in tutto e per tutto un’attività zootecnica, quindi l’acquacoltura intensiva potrebbe essere responsabile di varie tipologie di impatti. A cominciare da quello prodotto sulla qualità dell’acqua, che in acquacoltura è oggetto di elevata attenzione dal momento che i pesci, soprattutto delle specie allevate nel mondo occidentale, sono molto sensibili alla qualità dell’acqua in cui vivono. Gli allevamenti a terra della tipologia flow‐through prevedono il ricambio dell’acqua contenuta all’interno delle vasche, la cui entità tiene conto della biomassa presente, così da garantire adeguati livelli di ossigeno e da contenere la presenza dei cataboliti azotati. Le acque reflue dagli impianti di allevamento devono subire adeguati trattamenti, nel rispetto delle normative, prima di essere reimmesse nei corpi idrici naturali. In questo modo si contiene il rischio di eutrofizzazione delle acque naturali e si riduce significativamente l’impatto ambientale associato agli allevamenti a terra. Un altro aspetto da considerare, dal punto di vista della sostenibilità dell’acquacoltura, è la tipologia di ingredienti che si utilizzano nelle formulazioni mangimistiche. Le specie allevate in Italia e in Europa sono per lo più carnivore, con fabbisogni proteici particolarmente elevati. Un tempo i mangimi utilizzati in acquacoltura erano formulati utilizzando fonti proteiche e lipidiche di origine marina, cioè farine e oli di pesce. La condizione di sovrasfruttamento di molti degli stock ittici selvatici e lo sviluppo che ha avuto negli ultimi decenni l’acquacoltura, che manterrà il suo trend in crescita anche nei decenni futuri, non consentono più di fare affidamento su questa tipologia di ingredienti. Di conseguenza, ormai da decenni si stanno utilizzando fonti proteiche e lipidiche alternative. Inizialmente sono state utilizzate fonti proteiche e lipidiche di origine vegetale, in sostituzione parziale delle farine e degli oli di pesce. Si è arrivati a formulare mangimi con un contenuto limitato di ingredienti di origine marina, senza sacrificare le performance zootecniche e cercando di salvaguardare la qualità del prodotto, che è riconosciuto come un “superfood” per la ricchezza di componenti funzionali che lo caratterizzano, prima di tutto i famosi acidi grassi a lunga catena e ad elevato grato di insaturazione della serie omega-3. Ma anche la sostituzione delle fonti proteiche e lipidiche di origine marina con ingredienti vegetali pone ormai problemi in termini sostenibilità ambientale, a causa della cosiddetta competizione feed vs food. Con l’obiettivo di salvaguardare la sostenibilità dell’acquacoltura, oggi si punta a nuovi ingredienti, quelli della terza generazione, caratterizzati da maggiore sostenibilità, che sfruttino i principi dell’economia circolare, che siano in linea con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite. Mi riferisco agli insetti, il cui utilizzo nei mangimi è stato autorizzato a livello della UE, inizialmente solo per l’acquacoltura ma adesso anche per altre specie, ma anche agli scarti della lavorazione dei prodotti ittici e dei prodotti avicoli, alle microalghe, alle macroalghe… si tratta di un settore di ricerca molto attivo, anche in Italia, che punta a trovare nuovi ingredienti, che salvaguardino le risorse naturali e riducano la limitazione della competizione feed vs food vs fuel.
Molto spesso, semplicemente andando in pescheria o al supermercato, si sente che i consumatori chiedono pesci non di allevamento, come se il pesce pescato fosse migliore rispetto a quello proveniente da acquacoltura. Ma è davvero così?
Non è assolutamente possibile affermare la superiorità del pesce selvatico rispetto a quello allevato, che peraltro permette di garantire una tracciabilità completa. L’atteggiamento del consumatore nei confronti del pesce è completamente diverso da quello che ha nei confronti delle specie della zootecnica tradizionale, quella terricola… Il pesce allevato viene gestito nelle varie fasi del ciclo biologico, curando la qualità dell’acqua, la qualità del mangime somministrato, curando anche le fasi finali della vita dell’animale. Anche se ancora non esiste un regolamento che stabilisca la corretta modalità di uccisione degli animali, l’appropriata manipolazione degli animali al momento della cattura e una modalità di uccisione più umana e meno stressante sono condizioni che vengono ricercate dall’allevatore, sia per rispondere a principi etici, e quindi per rispettare il benessere degli animali anche nella fase finale della vista, sia perché il minor stress degli animali si traduce in una maggiore shelf life del prodotto, e quindi in una migliore qualità dello stesso.
Nel caso degli animali selvatici, il rischio dell’eventuale presenza di contaminanti non è da escludere a priori, dal momento che la loro eventuale presenza è legata al livello di contaminazione delle acque in cui il pesce ha vissuto. Inoltre, si può affermare che spesso purtroppo le operazioni di pesca espongono gli animali a numerosi fattori di stress, la cui azione e le cui interazioni possono compromettere gravemente il benessere degli animali nel momento della morte.
Se davvero nel 2030 il 62% del pesce destinato al consumo umano sarà di allevamento, per raggiungere tali obiettivi l’acquacoltura deve essere supportata da un’intensa attività di ricerca al fine di individuare nuovi mercati di sbocco, per la diversificazione delle specie e l’utilizzazione di tecnologie di produzione innovative, efficienti e rispettose dell'ambiente. A che punto siamo?
La ricerca in acquacoltura direi che è molto attiva, ci sono Paesi leader da questo punto di vista, come ad esempio la Norvegia, ma anche la Cina, che è il maggior Paese produttore a livello mondiale. La diversità delle specie allevate e le specifiche peculiarità che le caratterizzano rendono però poco o per niente trasferibili ad altre specie i risultati ottenuti su una specie. Questo significa che la ricerca dovrebbe svilupparsi sulle singole specie di interesse per la specifica realtà geografica. Sarebbe poi importante che ci fosse un’integrazione tra ricercatori delle diverse aree (zootecnici, biologi, ingegneri, economisti, …) così da operare in maniera sinergica e superare i limiti imposti dalle specificità delle competenze.
Un aspetto da considerare è sicuramente quello dell’educazione e della formazione dei consumatori che, nei confronti del pesce di allevamento hanno pregiudizi che per le altre specie di interesse zootecnico sono stati superati da secoli. E spesso la cattiva informazione diffusa da alcune fonti alimenta questi pregiudizi consolidando nel consumatore una visione delle cose completamente deviata rispetto alla realtà.
In acquacoltura pesa anche la ricerca sul miglioramento genetico delle specie?
Sul fronte del miglioramento genetico delle specie allevate siamo davvero ancora molto indietro. Si tratta quindi di un aspetto che riserva indubbiamente delle potenzialità enormi per il settore. Se pensiamo ai vantaggi che il miglioramento genetico ha prodotto nelle specie della zootecnia tradizionale, sono prevedibili progressi rilevanti, con ricadute economiche importantissime che potrebbero andare dal miglioramento delle prestazioni di crescita, al miglioramento dell’efficienza di utilizzazione degli alimenti, all’individuazione di ceppi più resistenti alle condizioni di allevamento o più resistenti a determinate patologie.
Il fatto che l’acquacoltura sia un’attività zootecnica molto recente rispetto alle altre attività zootecniche giustifica l’apparente arretratezza e lascia presagire degli scenari davvero promettenti per un futuro forse neppure troppo lontano.
Come deve essere, secondo lei, l'acquacoltura del futuro?
Le potenzialità offerte dal settore dell’acquacoltura sono enormi. Sicuramente l’acquacoltura del futuro dovrebbe essere un’acquacoltura che operi secondo i criteri della sostenibilità, declinata nei suoi molteplici aspetti. Un’acquacoltura che, anche nel mondo occidentale, possa valorizzare specie meno esigenti dal punto di vista dei fabbisogni nutrizionali rispetto a quelle allevate oggi nei Paesi occidentali e anche nel nostro Paese. Bisognerebbe puntare a forme di acquacoltura integrata, come ad esempio l’abbinamento tra allevamento di pesci in gabbie in mare e l’allevamento di molluschi bivalvi, una strategia semplice che permette di contenere l’impatto ambientale generato dagli allevamenti in mare. O sistemi come l’Integrated Multitrophic Aquaculture (IMTA), che simula quanto avviene negli ecosistemi naturali, massimizzando lo sfruttamento degli input immessi all’interno del sistema e operando nell’ottica della sostenibilità ambientale. Un altro aspetto sul quale l’acquacoltura del futuro dovrebbe focalizzarsi è quello relativo al benessere degli animali. I pesci sono animali ovviamente senzienti, ma la cui complessità è solo in parte conosciuta…. Ho detto che sono animali “ovviamente” senzienti, ma… incredibile a dirsi… questa caratteristica è stata riconosciuta ai pesci da relativamente poco tempo.