Campi maledetti, lombrichi e lupi

di Giovanni Ballarini
  • 29 November 2017
Oggi sono maledetti o ritenuti tali i campi profughi e alcuni campi di calcio e tennis, ma al tempo delle società pastorali erano quei terreni di pascolo dove il bestiame contraeva una malattia mortale anche per l’uomo, il carbonchio ematico, così denominato per il sangue nero e le pustole nere degli ammalati e dei morti, ora noto con il termine anglofono di antrace, e cioè nero. Una malattia che nell’attuale società tecnologica di tanto in tanto torna alla ribalta come rischio di guerra batteriologica, come conseguenza del riscaldamento planetario o di un ritorno a sistemi d’allevamento pastorali.
Dalla fine del milleottocento fino a metà del millenovecento il carbonchio ematico è la malattia che occupa le pagine d’inizio nei trattati di malattie infettive, per il fatto che é la prima malattia batterica studiata scientificamente da Robert Kock, che nel 1877 ne isola l’agente causale il Bacillus antracis, e da Louis Pasteur che nel 1881 dimostra la grande efficacia di un vaccino da lui preparato. Quest’ultimo scienziato studia anche la diffu-sione e il mantenimento dell’infezione nei pascoli, mettendo in luce il ruolo delle spore del bacillo e il ruolo dei lombrichi che portano in superficie le spore presenti nei cadaveri di animali morti e sepolti a poca profondità, dando un significato concreto alla fama di campi maledetti che i pastori davano ai territori dove il bestiame si ammalava.
Inutili storie antiche? Forse no, perché chi scrive queste brevi note, in tempi vicini e tra il 1950 e il 1970, nelle Marche e nell’Emilia Romagna ha vissuto episodi di carbonchio ematico e di campi maledetti. Oggi in Siberia e con lo scioglimento del permafrost provocato dal riscaldamento del pianeta, le spore scongelate del carbonchio ematico dopo settanta anni dall’ultima epizoozia hanno provocato la ricomparsa della malattia nelle renne, dimostrando ancora una volta la loro sopravvivenza infettante per lunghissimi tempi. In modo analogo si deve temere la ricomparsa di questa malattia quando, in allevamenti biologici, si ricomincia a inviare gli animali al pascolo in quelli che erano campi maledetti, dove erano stati abbandonati e più o meno malamente seppellite carcasse di animali infetti, e dove in as-senza di concimazioni chimiche ricominciano a pullulare i lombrichi, che sono capaci di portare in superficie le spore di carbonchi ematico da strati di terra non molto profonda. Da qui la necessità, già indicata da Louis Pa-steur, di sotterrare gli animali morti profondamente, oltre un metro e mezzo.
Recentissima (agosto 2017) é la notizia di un focolaio di malattia in un allevamento al pascolo nel comune di Grottaferrata (Roma) che certa-mente pascolavano in un “campo maledetto” dal quale sono stati allontana-ti.
Il carbonchio ematico o antrace è una malattia altamente mortale non solo degli animali erbivori, ma anche dell’uomo, nel quale è molto perico-losa la forma polmonare causata dalla inalazione delle spore, come avveni-va in chi tosava le pecore ammalate e anche morte (malattia dei tosatori) e raccoglieva e lavorava gli stracci di lana (malattia dei cenciaioli), condizioni che oggi possono ritornare con importazioni di questi materiali da paesi infetti.
La diffusione del Bacillus antracis, con i suoi quasi novanta diversi ceppi anche scarsamente o quasi non patogeni è mondiale, perché parte del-la flora microbica dei suoli di ogni parte del mondo. Per questo non si può dare la colpa a Cristoforo Colombo e suoi seguaci di aver portato la malattia dall’Europa all’America, e neppure ai popoli che dall’Asia attraverso lo stretto di Bering in epoca preistorica giunsero nelle Americhe.
Le spore dei ceppi o varietà patogene di bacilli del carbonchio sono diffuse dalle carcasse degli animali infetti, quando non sono distrutte dall’antico sistema biologico degli animali carnivori predatori. Nota da molto tempo é la resistenza degli animali carnivori al carbonchio ematico, risultato di una lunga selezione. Quando in un branco di ruminanti vi è un animale ammalato di carbonchio, questo diviene una facile preda dei carni-vori, tra questi i lupi dei nostri territori o i leoni in Africa. I carnivori che si alimentano degli animali ammalati non contraggono la malattia e mangian-do l’animale distruggono anche il ceppo patogeno di carbonchio, compien-do in questo modo una preziosa opera di spazzini sanitari, che elimina dall’ambiente la pericolosa infezione. Non tutto il male della predazione viene quindi per nuocere, anzi!