L’incredibile viaggio delle piante

di Stefano Mancuso
  • 14 November 2018
La maggior parte delle piante con le quali abbiamo comunemente a che fare in casa, in giardino, nell’orto o nei parchi, viali e aiuole delle nostre città, non hanno granché in comune con i loro antenati selvatici. Sono quasi tutte, infatti, piante addomesticate e, come tali, talmente lontane dai loro progenitori come un lupo lo è da un barboncino. Anzi, nel caso delle piante la distanza che separa le piante domestiche dai loro progenitori è spesso maggiore. Prendiamo, per esempio, il mais, una delle colture più comuni esistenti sul Pianeta. Chiunque ha visto un campo o, perlomeno, una pannocchia di mais. Bene, il suo antenato si chiama “teosinte” e, credetemi, non lo riconoscereste: non ha nulla a che fare con la pianta del mais. Quando l’uomo iniziò a coltivarlo, circa diecimila anni fa, la sua spiga era formata da otto, dieci semi, e le sue dimensioni non superavano i quattro, cinque centimetri. Nel mais odierno una spiga matura può essere lunga anche quaranta centimetri e contenere fino a mille semi. Irriconoscibile. Lo stesso vale per il grano, il pomodoro, il riso, la melanzana, il peperone, la rosa, la margherita, il tulipano, la mela, la vite, la banana, la magnolia, il tiglio, il pioppo o qualunque altra pianta abbia intrapreso un cammino comune con l’uomo.
Perché questa è l’addomesticazione: un lungo viaggio comune durante il quale due specie imparano a stare insieme, che si consolida un rapporto mutualistico dal quale sia l’addomesticato che l’addomesticatore traggono benefici. Anzi, a voler essere pedanti, utilizzando una delle definizioni più recenti: “l’addomesticazione è una relazione multigenerazionale o mutualistica in cui un organismo assume un significativo grado di influenza sulla riproduzione la cura di un altro organismo al fine di garantirsi una fornitura certa e continua di una o più risorse di interesse. Attraverso la stessa relazione, l’organismo partner ottiene dei vantaggi rispetto agli individui che rimangono fuori da questo rapporto privilegiato”. Un processo che, contrariamente a quanto si crede, non è nella totale disponibilità dell’uomo ma è piuttosto un pas de deux fra due partner consenzienti.
Non tutte le specie animali o vegetali possono diventare domestiche. L’addomesticazione richiede consuetudine, prossimità con l’uomo, capacità di convivenza e caratteristiche fisiche compatibili. E, infine, una volta che tutto questo sia stabilito, c’è ancora il caso di cui tenere conto. Perché abbiamo addomesticato il lupo e non la volpe o il licaone? Perché il grano e il riso e non un’altra delle centinaia di specie vegetali che producono semi ricchi di amido? Perché la vite e non un’altra bacca? Per caso. Alcuni preferirebbero, forse, parlare di fortuna. Io sarei più cauto: non è affatto un evento fortunato per qualunque organismo vivente entrare in rapporto con l’uomo. Fare affari con noi, infatti, anche se all’inizio può sembrare una buona idea, a conti fatti assomiglia molto ad un patto con il diavolo: ci si perde l’anima. E’ quanto è accaduto a qualunque essere vivente, animale o vegetale, sia mai stato addomesticato dall’uomo: il processo di domesticazione prevede, infatti, la perdita di tutte quelle caratteristiche che rendono autonomo un essere vivente. Una pianta domestica rispetto al suo antenato selvatico è priva della maggior parte delle sue abilità. E’ inerme di fronte ai patogeni, non resiste agli stress termici o idrici, non è capace di trovare nel suolo le sostanze nutritive che le servono. Dipende totalmente dall’uomo, che deve difenderla, nutrirla, accudirla, perfino riprodurla. Prendiamo, ad esempio, la questione dei semi. Poiché danno fastidio li abbiamo rimossi da molti frutti, impedendo il normale processo riproduttivo della specie. Banane, agrumi, uve apireni (senza semi) hanno perso la capacità di riprodursi sessualmente e sopravvivono soltanto grazie all’uomo che le propaga per via vegetativa, attraverso la creazione di milioni e milioni di piante clonali – geneticamente tutte uguali tra loro come lo sono dei gemelli monozigotici. Il rischio di queste specie domestiche è enorme: poiché le piante sono geneticamente identiche, in caso di sensibilità ad un qualunque patogeno, l’intera popolazione è a rischio di essere cancellata. Non essendoci variabilità genetica, se una pianta è suscettibile, anche tutte le altre lo sono nella stessa misura. Dicevamo di patto col diavolo? Beh, sappiate che questa tendenza a rimuovere i semi dai frutti è dilagante. La presenza di semi è considerata un difetto da eliminare. Una parte consistente dell’umanità si sta rapidamente trasformando in delicate e schizzinose principesse sul pisello incapaci di tollerare la minima scomodità, semi compresi. Che il seme sia fondamentale per perché un’altra specie possa riprodursi e sopravvivere, non ci riguarda. Eppure, avete mai pensato a che capolavoro è un seme? Una capsula capace di preservare al proprio interno un embrione vitale, in condizioni ambientali variabili e spesso proibitive, per un inverosimile numero di anni. Fare la stessa cosa con un embrione animale – che non è affatto più complesso o delicato del suo corrispondente vegetale – richiede la conservazione in azoto liquido a temperature prossime a -196°C. Il seme sembra progettato dal dio del packaging, magari fossimo capaci di fare cose del genere. Le piante sono la vita stessa di questo Pianeta, ci sopravviveranno e ripareranno ai nostri danni in un battito di ciglia. Ma finché ci siamo anche noi, faremo meglio ad imitarle invece che sterilizzarle.



Il 15 novembre p.v. esce per Laterza l’ultimo libro di Stefano Mancuso, “L’incredibile viaggio delle piante”, illustrato con gli acquerelli di Grisha Fischer (144 pagine, 18 euro).


Da: La Repubblica, 11/11/2018