I temi del commercio internazionale irrompono nel dibattito politico e nei mezzi di informazione. Ritorna, da lontani precordi, il protezionismo che sembrava avviato ad un inevitabile tramonto. E si accompagna al ritorno del “sovranismo” e cioè al desiderio di entità statali totalmente libere di prendere decisioni. Fa capolino persino la politica delle cannoniere con la chiusura dei porti e il blocco delle merci oltre che delle persone. Decenni di prevalenza della diplomazia, sembrano sopraffatti dai pugni sul tavolo.
Gli esempi non mancano: dall’avversione all’accordo con il Canada (Ceta) già in vigore, con la possibile mancata ratifica, all’innamoramento per l’accordo quasi gemello con il Giappone (EPA). Dallo sdegno verso gli US per la rottura degli accordi e l’imposizione di dazi all’altrettanto incongrua richiesta di procedere in modo casuale nei confronti di importazioni sgradite.
I temi in gioco sono numerosi, proviamo a ricapitolare. Il primo è la spinta al protezionismo nei momenti di gravi difficoltà. È il rifugio più semplice, ma anche il più costoso ed ingannevole. La teoria economica e la prassi indicano che può essere solo temporaneo, altrimenti crea una pericolosa assuefazione e non lascia spazio ai veri motori dello sviluppo la competitività e la redditività. Ogni stato o aggregazione di stati, per necessità, vi ha fatto ricorso, ma dà una pericolosa assuefazione da cui si fatica a uscire. Come il sonno della ragione genera solo mostri.
L’alternativa, sul piano teorico e pratico, è l’apertura dei mercati con trattative e soluzioni negoziate. È una strada in genere lunga e faticosa che porta a smantellare costose barriere doganali tariffarie e non tariffarie. Queste sono costruite su regole pratiche e cavilli formali usati impropriamente per frenare gli scambi come l’applicazione obbligatoria di standard di prodotto e di processo. Le più complesse sono quelle sanitarie motivate dall’imperativo della tutela della salute umana, animale e anche dell’ambiente. Negli ultimi decenni si è percorso un lungo e proficuo cammino che ha portato alla loro crescente riduzione. Questa scelta è confermata dalla teoria economica e dalla pratica e si regge sulla logica della teoria dei costi comparati che mostra che conviene produrre e commerciare ciò che si riesce a realizzare meglio di altri e a costi inferiori. L’eliminazione delle barriere di ogni tipo favorisce un incremento della ricchezza prodotta. L’economia mondiale ne ha bisogno, in particolare nell’attuale fase di convalescenza dopo la grande crisi.
Un ulteriore spunto di riflessione è dato da alcune anomalie di fronte alle scelte da compiere e a quelle già compiute. L’Italia, insieme ad altri paesi europei e ai partner mondiali, ha seguito questa strada, ma emergono posizioni contrarie e contraddittorie che si diffondono e impediscono di capire i fenomeni in atto. Ne sono vittime i due accordi, Ceta ed Epa. Vediamo in breve i punti più controversi. L’agricoltura in entrambi è solo una parte minore, ma c’è ed è tutelata. Le denominazioni d’origine, che oggi non hanno difese sul piano degli scambi, con entrambi le avranno. Le norme legate alle legislazioni nazionali non possono comunque essere disattese all’atto degli scambi commerciali come invece si afferma. I prodotti, non solo agricoli, infatti continueranno ad essere conformi alle norme del paese esportatore e di quello importatore. È ribadito comunque il diritto di ogni paese a non vedersi imposte norme più lassiste. L’elenco dei motivi contrari è lungo, ma in sintesi l’opposizione agli accordi, sostenuta da oscuri timori, non ha motivo d’essere. Al contrario, chi esporta e chi consuma i nostri pregiati prodotti alimentari avrà maggiori tutele. È vero che la lista dei prodotti d’origine protetti dai due accordi non li comprende tutti, ma si va oltre il 90% in valore, un obiettivo impensabile prima dei negoziati.
Infine un’ultima considerazione. La bilancia italiana degli scambi agricoli e alimentari, nel complesso in rosso, è passiva per la componente agricola e attiva per quella alimentare che contribuisce all’attivo della bilancia commerciale. Abbiamo bisogno di importare materie prime agricole per il consumo e per la trasformazione perché non ne produciamo a sufficienza. Non è possibile bloccare le importazioni per ragioni tecniche e legali, ed è illogico pretendere che gli altri importino i nostri prodotti. Cosi si aprirebbe la strada dei conflitti, di misure ingiuste e delle conseguenti ritorsioni. Un gioco in cui tutti sono perdenti.
Nell’affrontare la tematica del commercio mondiale occorrono attenzione e prudenza, senza improvvisazioni. Non possiamo compromettere decenni di duro impegno del nostro paese in campo agricolo e alimentare sino alla sua posizione attuale.