Etichetta di origine e protezionismo: intrecci pericolosi

di Lorenzo Frassoldati*
  • 21 February 2018
La questione dell’etichetta di origine degli alimenti si mescola pericolosamente di questi tempi con la ripresa delle tentazioni protezionistiche. Da un lato si chiedono dazi e barriere “a protezione della qualità del made in Italy” (e si chiede il prossimo ministro dell’Agricoltura, come fa il leader della Lega Salvini, per farne il protagonista di battaglie contro l’Europa), dall’altro si osannano acriticamente i provvedimenti governativi (decreti) con cui i ministri Martina e Calenda introducono l’etichetta di origine obbligatoria. Da metà febbraio è scattato l’obbligo per il riso – informa la Coldiretti, che su questa battaglia si è spesa più di tutti, condizionando il mondo dei media con le sue massicce campagne di informazione – e per la pasta. Arrivano quindi nuove etichette sui pacchi di pasta secca e riso, per spiegare al consumatore se la pasta è fatta anche con grano canadese o se il riso viene dal Sudest asiatico. Ma, attenzione, in estate è previsto il nuovo regolamento UE sull’origine degli alimenti, quindi tutto potrebbe essere rimesso in discussione.
Ma qui ora il problema è un altro. Capire cioè se questi provvedimenti aiutano e tutelano davvero la produzione italiana e in che modo. Certamente l’obiettivo della trasparenza nei confronti del consumatore viene raggiunto, obiettivo importante come tutte le indagini di mercato confermano. Conoscere l’origine dei prodotti orienta i consumi e la Gdo ne è consapevole (“Origine” è il marchio commerciale lanciato da Coop con successo per una serie di prodotti agroalimentari di largo consumo). L’etichetta di origine dovrebbe valorizzare, infatti, il grano duro italiano e il riso nazionale, anche se le crisi di mercato e la volatilità dei prezzi sono sempre in agguato, e non basta una etichetta per fermarli. Stesso discorso per la remunerazione della materia prima all’origine: la qualità non basta, per continuare a farla serve che venga riconosciuta dal consumatore, che venga valorizzata dal retailer (Gdo), che venga inserita in contratti di filiera col trasformatore industriale.  Servono insomma tante condizioni variabili, di cui l’etichetta è solo un primo step, condizione necessaria ma non sufficiente. Un esempio per tutti: il Parmigiano è ‘tracciato’ fin dalla stalla, ma il suo prezzo fluttua in base ad altri parametri: quantità prodotte, export, consumi, ecc
Il caso dell’ortofrutta è eclatante: da anni è in vigore l’etichetta di origine, però questo non è servito a disinnescare le crisi di mercato. L’altalena dei prezzi in un comparto strutturalmente eccedentario come frutta e ortaggi deriva da altre variabili, le più diverse: meteo, sovrapposizioni produttive, frammentazione dell’offerta, varietà obsolete, concorrenza internazionale, politiche commerciali della Gdo, scarso feeling col consumatore. Posso fare le clementine più buone al mondo, ma se una catena me le mette in promozione a 50 cent/kg, di che parliamo? Certo, non sempre la Gdo è ‘cattiva’. C’è anche la Gdo ‘buona’, quella che sta valorizzando i prodotti a marchio Dop/Igp, che promuove i territori, che soccorre le produzioni quando le crisi di mercato le stanno affossando…insomma la questione dei prezzi e dei redditi è molto complicata e non ci sono soluzioni miracolistiche. L’etichetta di origine non è una bacchetta magica che rende più ricco il produttore, non è il rimedio miracoloso che spesso viene raccontato, aiuta certamente ma non basta. Se manca l’organizzazione commerciale, l’aggregazione dell’offerta, se non c’è un sistema Paese che lavora in squadra in particolare sul fronte export, senza il marketing e l’orientamento verso nuovi stili di vita e consumo, serve a poco.  Certamente conoscere l’origine di un prodotto mi aiuta e mi indirizza nella scelta, ma non è detto che la mia scelta incida direttamente sul prezzo all’origine di quel prodotto, quindi sul reddito del produttore. Ancora una volta bisogna ricordare che gli interessi del consumatore e del produttore non sempre coincidono. I prezzi bassi che il consumatore chiede non sempre aiutano e danno ristoro a chi produce in campagna.
Poi la questione dei controlli. Le porte dell’Europa sono sempre aperte all’import, ma l’export ogni paese deve sudarselo in trattative estenuanti coi singoli paesi-obiettivo. Possibile che non ci sia un sistema-Europa che aiuta l’export? Non è il caso di impegnarsi a livello europeo su questo fronte, far lavorare di più in questo senso il nostro Governo e i nostri europarlamentari?
Conclusioni. Europa permettendo, ben vengano i provvedimenti nazionali sull’etichetta di origine, purché se ne conoscano i limiti. E purché non li si usino per una battaglia anti-globalizzazione: noi della globalizzazione abbiamo bisogno, per vendere in tutto il mondo il nostro made in Italy di qualità. Adesso, in campagna elettorale, nel festival delle promesse strampalate, tutti chiedono più controlli sull’import e alcuni chiedono dazi. I dazi sono vietati dall’Europa. I controlli certamente li possiamo incrementare (a chi spetta se non a noi?) purché non diventino forme spurie di barriere doganali. Perché più noi chiudiamo le nostre frontiere alle produzioni altrui, più gli altri chiuderanno le loro a noi. E, a occhio e croce, nell’agroalimentare e nell’ortofrutta, a rimetterci saremo noi.    


*Direttore del Corriere Ortofrutticolo