L’agricoltura associata può essere più competitiva?

di Franco Scaramuzzi
  • 28 June 2017
L’origine dell’agricoltura e della proprietà dei terreni coltivabili sono legate all’uomo da quando iniziò la sua vita stanziale e lo scambio dei prodotti. Una lunga e complessa storia che ha lasciato tracce di tante esperienze vissute, ma mai rimasta costante e uguale nello spazio e nel tempo. Sull’argomento mi permetto di suggerire la lettura di un’efficace sintesi recentemente pubblicata da Luigi Costato (Acta Concordium n. 43, dello scorso aprile 2017). Offre un quadro significativo che induce a riflettere ed anche a capire meglio gli errori che continuiamo a commettere.
Vorrei richiamare l’attenzione, dei giovani, soprattutto su quella “mezzadria” che non hanno vissuto e forse neppure studiato, pur essendo stata fulcro della “civiltà contadina”, che molti amano ricordare. E’ stata un grande e apprezzato sistema associativo per la gestione della terra coltivata. Nata agli inizi del XIII secolo, si è diffusa in particolare nel centro-nord della nostra penisola e in alcuni territori europei. Si era ben compreso che, condividendo con i lavoratori i risultati produttivi, si potevano ottenere redditi maggiori. I “poderi” venivano infatti condotti associativamente, stipulando appositi contratti, anche diversi tra loro e basati sulle specifiche caratteristiche ambientali locali e sulla composizione della famiglia colonica. Nel tempo la popolazione agricola è andata aumentando e le forze lavoro delle famiglie crescevano, mentre i concessionari tendevano a frazionare i poderi per incrementare ulteriormente le produzioni e i redditi unitari. Tanto che già nel XIX secolo Cosimo Ridolfi, Presidente dei Georgofili e illustre politico, previde “che le eccessive promiscuità delle fitte colture mezzadrili avrebbero travolto l’economia di quei poderi”. 
Dopo l’ultimo conflitto mondiale mezzadri e concedenti (entrambi animati da comprensibile spirito di conservazione) erano ancora ostili alle innovazioni tecniche. Ma già alla metà del secolo scorso le ideologie politiche prevalenti ascoltarono le piazze mosse a chiedere “pane e lavoro” e “terra ai contadini”. Senza neppure accorgersene, tutto stava già cambiando: le industrie stavano rapidamente crescendo e i lavoratori agricoli lasciavano le campagne, attratti dalle migliori condizioni offerte nelle zone urbane o in loro prossimità. Si era puntato e si continuò a favorire e sostenere finanziariamente la creazione di piccole proprietà contadine, oltre che attraverso riforme fondiarie e agrarie, anche con espropri e colonizzazioni di terre incolte o giudicate insufficientemente coltivate. Credo, però, che oggi le terre non sufficientemente coltivate siano diventate molto più numerose, pur essendosi verificata una crescente diminuzione della superficie agraria disponibile.
La mezzadria fu comunque bersagliata da modifiche imposte politicamente. Basta ricordare il “Lodo De Gasperi” (1946), la “Tregua Segni” (1947), gli interventi legislativi (1964) che attribuirono la condirezione del podere a entrambi i contraenti, la legge (1965) che concesse ai mezzadri il diritto di prelazione. La legge 203 (1982) volle di fatto chiudere definitivamente la “storica mezzadria”, cioè la più importante associazione tra proprietari e lavoratori della terra.
E’ pienamente condivisibile ciò che ha scritto Luigi Costato: “La mezzadria ha costituito il lievito della crescita di parti notevoli del nostro Paese, ma era destinata a scomparire, anche senza interventi del potere politico”. “La maglia poderale era di dimensioni troppo ridotte per riuscire a reggere la competizione del mercato”. Lo sviluppo industriale offrì condizioni migliori di lavoro e la manodopera agricola migrò rapidamente dalle campagne. Per le imprese agricole divenne quindi indispensabile utilizzare ogni possibile meccanizzazione, adeguando l’ampiezza degli appezzamenti, le sistemazioni idrauliche, i sistemi di coltivazione specializzata, ecc. 
Gli agricoltori cercarono di utilizzare tutte le soluzioni possibili. I più rapidi credo siano stati i viticoltori, che hanno sviluppato programmi chiari e mirati. Molte imprese che disponevano di autonome cantine e di organizzati settori commerciali, senza bisogno di filiere, hanno esteso vigneti a perdita d’occhio, spesso rispettando solo i boschi e qualche olivo che non poteva essere estirpato a causa di nuove leggi paesaggistiche. Abbiamo assistito a un elevato impiego di grosse macchine per livellare i pendii collinari e le terre di pianura, scavando anche profondi fossati per sotterrarvi razionali drenaggi, in sostituzione dei tradizionali fossetti di scolo di superficie, mantenuti con zappa e vanga e non sempre resistenti alle forti piogge. Questi cambiamenti ci hanno portato a nuovi e gradevoli paesaggi agricoli. Molte imprese hanno rinnovato anche le loro cantine con le più aggiornate tecnologie enologiche e con architetture moderne, che richiamano un turismo crescente. Non si comprende come si sarebbero potuti “conservare” tutti i paesaggi di un’agricoltura mezzadrile, secondo i criteri che la politica ha inteso imporre, indipendentemente dai costi, dai prodotti, dai redditi, dalla fame nel mondo, ecc.
Le nuove tecnologie avanzate però non contemplano solo lo sviluppo della meccanizzazione, ma anche l’uso della comunicazione digitale che consente la visione e la guida a distanza, tramite satelliti, droni, computer, robot, ecc. Continuano ad aggiungersi crescenti conoscenze dalla ricerca scientifica universale che stimoleranno ulteriori cambiamenti. Gli agricoltori stanno infatti cercando di rivalutare varie forme di associazionismo, al fine di realizzare aziende di dimensioni adeguate, anche se di proprietà diverse, per trovare soluzioni non di facciata, ma innovative, concrete e razionali. Come se, con l’ottimismo della ragione, riemergesse un mondo agricolo valido e lungimirante. Forse il genoma umano sta riattivando geni stimolatori del buon senso.
Il titolo di questo testo è chiuso da un punto interrogativo, non per dubbio sulla fattibilità di nuove gestioni agrarie associate, ma per i tanti ostacoli, di ogni genere, spesso creati dalla pesante e lenta burocrazia, con l’aggiunta della torbida palude nella quale sembra caduta la nostra politica e in cui è diffusa la corruzione, ogni forma di criminalità, gli interessi dei “forti poteri marci”, ecc. Lo Stato deve quindi essere più autorevole e pronto a recepire, valutare e avvallare nuovi percorsi che gli imprenditori possano liberamente scegliere. Anche i proprietari di piccole aziende, continuativamente ridotte da divisioni ereditarie, devono cercare sostegni reciproci, aggregandosi con altri. Molti sono i modelli possibili, nel pieno rispetto del diritto di proprietà. Ma serpeggiano accenni equivoci sui diritti di proprietà privata, che qualcuno vorrebbe trasformare in “beni pubblici”, facendo finta di aver dimenticata la tragica esperienza dell’Unione Sovietica e di altri Paesi.


Foto: Settembre 2007 - Preparazione del terreno per nuovi vigneti in Chianti. In basso, vecchi terrazzamenti con viti alternate a olivi