La piaga dello sfruttamento nei campi: indignarsi e ripartire!

di Claudio Peri*
  • 19 April 2017
Da un amico che vive e insegna in una università americana ricevo un messaggio preoccupato che dice:  “mentre io e te parliamo di “human capital” dei lavoratori agricoli, guarda cosa succede in Puglia”  e mi segnala il link di un articolo comparso con grande evidenza nel New York Times del 12 Aprile scorso, a firma di Gaia Pianigiani, con il titolo “A Woman's Death Sorting Grapes Exposes Italy's Slavery” (La morte di una donna addetta alla coltivazione dell'uva mette in evidenza la piaga dello sfruttamento della mano d'opera in Italia)*.  Il mio amico conclude tristemente: “come si fa a parlare di qualità se i lavoratori sono schiavi?” 
E' il grido di dolore di un italiano che vorrebbe essere fiero della sua patria ed è messo invece nelle condizioni di vergognarsene.
La vicenda riguarda il Comune di San Giorgio Ionico (Puglia), la coltivazione di vigneti di uva da tavola e Paola Clemente morta di infarto e di fatica a 49 anni, mentre era intenta a lavorare nei campi, fino a 12 ore al giorno, con una paga giornaliera di 27 Euro e le vessazioni dei caporali. E' una vecchia storia, una delle tante. L'articolo riferisce diligentemente dell'indagine della magistratura, della identificazione dei responsabili, della nuova legge contro il caporalato, dell'attenzione rivolta a questo problema dal Ministero dell'Agricoltura, della tenace battaglia di Stefano Arcuri, marito della signora Clemente, per rivendicare i diritti di risarcimento della sua famiglia. Ma le conclusioni sono dure: “…virtual enslavement remains disturbingly widespread for a country renowned for its products worldwide … and … By some measures, Italy is the second-worst state in the European Union for the enslavement of people, behind Poland.”
Queste informazioni, divulgate a milioni di lettori in tutto il mondo, costano carissime all'Italia in termini di business e molto di più in termini di immagine e di fiducia nei prodotti italiani. Mi indigna il piagnisteo dei produttori che dicono di non poter fare altrimenti per sostenere la competizione del mercato. E ancora di più mi indigna la scusa degli agricoltori pugliesi che anche in altre regioni si fa così. Agli imprenditori agricoli che hanno perduto il senso dell'etica e della dignità, vorrei far capire con un esempio quanto è stupido il loro atteggiamento.
Giusto un mese fa ero in California, a Napa Valley, con lo stesso amico che mi ha inviato questa segnalazione, per partecipare ad un convegno organizzato dai produttori di vino di quella regione. Il tema era la promozione di un nuovo modello di sviluppo basato sulla collaborazione degli operatori della zona per valorizzare non solo il vino, ma anche le altre risorse del territorio, in particolare quelle dell'ospitalità e della ristorazione. Si trattava insomma dell'avvio di una di quelle “Communities of Practice” di cui ho avuto occasione di parlare in queste News. Una delle idee dibattute in quel convegno era la constatazione che sempre meno figli degli agricoltori che hanno creato la realtà attuale di Napa Valley scelgono di restare ad operare nell'agricoltura. Cercano carriere professionali di maggior prestigio. La disponibilità di abili viticoltori è diventata perciò uno dei fattori limitanti dello sviluppo e la decisione che sta maturando è quella di attrarre nuovi lavoratori, quasi tutti immigrati. Addestrarli adeguatamente, agevolare il trasferimento delle loro famiglie nell'area di Napa, fornire scuole, assistenza sanitaria e legale e, udite bene!,un salario dal 25 al 30% superiore al salario medio dei lavoratori agricoli in America. Il limite imposto dalla fuga dei vecchi agricoltori viene trasformato in un'opportunità per nuovi lavoratori e in un fenomenale motivo di promozione e di immagine di quella comunità.
Invio questo messaggio ai docenti delle Università pugliesi (o campane o calabresi o siciliane o toscane o venete) e agli Accademici dei Georgofili perché diventino promotori di una inversione di mentalità, cerchino nuovo valore aggiunto non tanto nella riduzione dei costi quanto nella rivendicazione di valori etici e sociali. Trovare nelle “Communities of Practice” gli antidoti ai comportamenti illegali. Diffondere queste idee nelle scuole. Denunciare gli abusi e boicottare i prodotti derivanti da tali abusi. Coinvolgere l'Accademia dei Georgofili e le Università, al di fuori di ogni connotazione partitica, nella promozione della credibilità attraverso la trasparenza e il rispetto delle leggi. Farsi venire nuove idee. 
Vi invito a leggere l'ultimo libro di Thomas Friedman “Thank you for Being Late” (“Grazie per essere in ritardo”) (Farrar, Straus and Giroux, New York, 2016), sottotitolo: “an optimist's guide to thriving in the age of acceleration”.  Capire che il buono che c'è ancora nelle campagne di Puglia e delle altre regioni italiane può diventare motore di nuovi sviluppi, se si riesce a emarginare l'illegalità e l'abuso. Mi rivolgo ai giovani professori e studenti: quale obiettivo più gratificante e produttivo di questo potreste dare al vostro impegno per il futuro?



*Accademico Emerito dell'Accademia dei Georgofili
Professore Emerito dell'Università di Milano
Promotore del modello delle “Comunità Integrate di Filiera”