Il 60°anniversario della firma del Trattato di Roma si è trasformato in una tribuna per i sostenitori di posizioni contrapposte e per cercare di animare un dibattito che, nonostante tutto, langue, probabilmente perché privo di attrattive e alternative concrete. Un membro importante come la Gran Bretagna si accinge ad uscire dall’Ue: è il primo caso dalla fondazione e si verifica in un momento in cui l’euroscetticismo, o meglio l’anti europeismo, si diffonde. Le posizioni avverse da noi si confrontano sull’obiettivo politico del recupero di sovranità. Quand’anche si realizzasse in Italia non si risolverebbero tre problemi chiave come la disoccupazione a livelli record, l’inarrestabile flusso immigratorio, il colossale deficit di bilancio.
L’Europa comunitaria si è sviluppata senza avere sciolto molti nodi e, sopra a tutti, un contrasto di fondo fra due concezioni: quella di essere un’aggregazione di paesi che partendo dall’economia puntasse all’obiettivo dell’unione politica e quella, più limitata, di realizzare una grande area di libero scambio. Ad esse si è aggiunta una terza concezione presente nei paesi dell’Europa centro orientale reduci dal crollo del comunismo che cercano un sostegno economico per la loro ricostruzione. I popoli europei, oggi, stanno insieme, ma non comprendono che le motivazioni non sono condivise.
L’anniversario è l’occasione per riflettere anche sulla Pac, presente nel Trattato di Roma, poi rimasta nelle successive versioni e disegnata nel 1958 dalla Conferenza di Stresa. La Pac conferisce un primato alla Cee: è l’unico caso di un’area di libero scambio che abbia introdotto anche i prodotti agricoli creando per essi addirittura una specifica politica comune. L’ingresso inglese nel 1973 fu rallentato e condizionato anche da essa, poco compatibile con la politica agraria inglese. Entrambe protezionistiche, ma la Pac abbinava l’intervento strutturale, basato su strategie e finanziamenti comuni, ad un sostegno pagato dai consumatori attraverso prezzi più elevati di quelli del mercato mondiale e la protezione del mercato interno dalle importazioni grazie a un sistema di dazi mobili e incentivi all’esportazioni. La politica inglese era basata sull’ integrazione dei prezzi di mercato percepiti dai produttori (deficiency payments) che scaricava l’onere del sostegno ai contribuenti e lasciava il mercato più esposto alle dinamiche di quello mondiale. Quando l’Ue è stata costretta a modificare la vecchia Pac, scostandosi sempre più dal modello originario, ne ha scelto uno più vicino a quello inglese. Ciò spiega la volatilità degli scorsi anni ed i prezzi bassi dell’ultimo triennio.
La pesantezza della crisi di tutta l’agricoltura europea oggi impone una coraggiosa rilettura di questa versione della Pac e l’attivazione di meccanismi diversi e più efficienti, pur rimanendo nel solco tracciato dalle trattative internazionali. Il ripristino di barriere alle importazioni accusate di far crollare i prezzi interni all’Ue si scontra con gli impegni già assunti e con le inevitabili ritorsioni che il resto del mondo opporrebbe subito, colpendo le nostre esportazioni agricole e alimentari, come vino, formaggi, salumi, ortofrutticoli, riso.
Il protezionismo è un rifugio illusorio, funziona a breve, ma nel lungo periodo diventa costoso per tutti, produttori e consumatori. Meglio allora il libero scambio, tutt’al più rafforzando le salvaguardie giustificate dalla strategicità dei prodotti agricoli. L’autarchia, l’economia e la storia lo insegnano, è sempre un fatto negativo che distrugge i sistemi produttivi, basti pensare alla tragica esperienza degli ex paesi comunisti.
Nel suo 60° anniversario dobbiamo guardare al futuro dell’Ue pensando che riguarda anche l’agricoltura.