L’impiego di funghi benefici nella difesa delle colture (difesa biologica) è argomento di attualità, in vista della necessità di aumentare la produzione agricola per rispondere al fabbisogno alimentare di una crescente popolazione mondiale e soddisfare la richiesta della comunità europea che, con la direttiva EU 2009/128/CE, prevede la riduzione dell’uso di fitofarmaci di sintesi a favore di prodotti e strategie sostenibili.
L’uso di funghi benefici nella difesa delle colture è una realtà conosciuta sin dagli anni ’60 del secolo scorso. Per la lotta biologica in patologia vegetale, l’anno 1965 può essere considerato l’anno zero, in quanto segna il passaggio da una conoscenza disorganizzata ad una conoscenza sistematizzata e unificata. Sebbene fosse già noto l’effetto dell’inoculazione del suolo con organismi antagonisti o l’azione di terreni soppressivi sulle malattie vegetali, e il parassitismo e l’antibiosi di
Trichoderma viride verso
Rhizoctonia solani fosse già stato descritto, è nel 1965 che, con il primo simposio internazionale sul controllo biologico “Prelude to Biological Control”, si prese coscienza del fatto che l’approccio biologico era meritevole di essere considerato una tra le strategie di difesa delle colture. Negli anni ’80 i patologi vegetali sembravano essere afflitti dalla sindrome del uno-a-uno e si tendeva a ricercare singoli antagonisti per il controllo di singoli patogeni. I terreni repressivi rappresentavano, quindi, la fonte di superantagonisti da brevettare e commercializzare piuttosto che – come riconosciuto ora – di un consorzio di organismi che cooperano sinergicamente nel modulare gli effetti delle malattie. L’utilizzo di singoli isolati benefici sembrava la soluzione per ridurre l’impiego di prodotti di sintesi ed il rischio d’insorgenza di patogeni a loro resistenti, o per salvaguardare l’ambiente e garantire la sicurezza di operatori e consumatori. Dagli anni ’80 e nei venti anni successivi, prima con metodi classici e poi con tecniche molecolari, i meccanismi d’azione degli antagonisti sono stati studiati nel dettaglio allo scopo di individuare l’organismo migliore che potesse agire nei confronti di un determinato patogeno. Negli anni ’90 la ricerca sul biocontrollo ha vissuto una prima dicotomia: da una parte le biotecnologie e l’ingegneria genetica hanno iniziato ad essere utilizzate per migliorare le performance di antagonisti selezionati, mentre dall’altra si è preso atto che la ricerca sulla difesa biologica non può prescindere dalle conoscenze di ecologia i cui concetti hanno impatto sulle applicazioni pratiche di questa strategia di difesa. Concettualmente, si è, quindi, passati dal classico triangolo della malattia – che coinvolge pianta, patogeno e ambiente- ad un quadrilatero in cui le comunità di funghi e batteri indigeni associati al suddetto sistema assumono un ruolo fondamentale nel successo (o nel fallimento) di un evento patogenetico, oppure, volendo mantenere il concetto di “triangolo”, l’ambiente deve includere anche la componente biotica. L’effetto soppressivo dei compost (o dei compost tea) è conosciuto da tempo, ma negli ultimi anni i termini “consorzio di organismi” e “approccio multitrofico nella difesa” stanno diffondendosi sempre di più. L’impiego di consorzi supera il concetto di uno-a-uno, garantisce un ampliamento delle combinazioni ospite/patogeno su cui può avere effetto e include la possibilità di abbinare organismi utili per la difesa con altri che stimolano la crescita della pianta. Le moderne tecniche NGS (Next Generation Sequencing) - prima tra tutte la metagenomica – permettono di approfondire le conoscenze ecologiche di questi consorzi e svelarne la componente “non coltivabile” che costituisce quasi il 90% di queste comunità naturali, ancora pressoché sconosciute. Gli studi di tipo ecologico del sistema pianta/patogeno hanno, quindi, ripreso vigore, potendo fornire quelle informazioni di base necessarie per un corretto utilizzo di strategie di difesa molto più complesse del semplice approccio “silver bullet”.
La strada del uno-a-uno non è stata ancora abbandonata ma ha indossato un abito più moderno. Il dibattito sull’impiego di organismi geneticamente modificati mediante l’inserimento di DNA esogeno (OGM) ha accompagnato il passaggio dal vecchio al nuovo millennio. E’innegabile che OGM per il biocontrollo possano essere ottenuti con minor sforzo rispetto a quello necessario per ottenere piante transgeniche resistenti ai patogeni e le scienze “omiche” forniscono gli strumenti per manipolare e monitorare l’espressione di determinati geni. Tuttavia il dibattito sull’impiego degli OGM è stato, è e sarà sempre di attualità. L’avvento del CRISPR-Cas - tecnica di genome-editing che permette di inattivare geni specifici attraverso mutazioni puntiformi e non inserendo DNA esogeno – apre nuove frontiere per l’ottenimento di organismi più efficaci. Le potenzialità di questa tecnica sono facilmente intuibili, ma ancora aperta è la relativa questione etica e tema di attualità sono le posizioni che i singoli Stati stanno assumendo verso questo strumento che continua a mantenere viva la strategia del singolo superantagonista da utilizzare nella difesa delle colture.
Volendo guardare al futuro, una possibile evoluzione potrebbe essere l’utilizzo di comunità naturalmente presenti nell’ambiente in combinazione con organismi editati (non OGM) che possano concorrere ad un più efficace controllo delle malattie, nell’ottica di una difesa sostenibile, e mirata, delle colture, ma solo la ricerca potrà suggerire valide alternative.