“L’Olivo e il suo Olio: una storia da rinnovare per poterla tramandare”, la formazione di nuove Communities of Practice

Un testo più completo è a disposizione degli interessati che lo richiederanno all'indirizzo email: claudio.peri@fastwebnet.it

di Claudio Peri
  • 23 November 2016
In questo intervento, che ha soltanto lo scopo di stuzzicare la curiosità, mi limiterò a quattro punti:

Il primo punto, che deriva dalla mia esperienza in questo settore, è che è facile dire bugie a proposito dell'olio extra vergine di oliva. Non esiste alcun metodo per verificare che in un olio che viene venduto come biologico non ci sia un 20% di olio non biologico e neanche per dire se nella oliveta biologica sia stato effettuato di sotterfugio un trattamento antiparassitario.
Non esiste alcun metodo per scoprire se in un olio che viene garantito come toscano non ci sia un 20% di olio proveniente da olive pugliesi o siciliane.
Non esiste alcun metodo per scoprire se un olio che viene venduto come olio novello durante la tradizionale sagra dei frantoi aperti non contenga in realtà un 20% dell'olio avanzato dallo scorso anno.
Meno che mai esiste un metodo per scoprire se un olio che ci viene venduto in un agriturismo come olio di produzione propria non sia in realtà miscelato con un olio acquistato nei dintorni o forse, più comodamente, da un commerciante amico.
Sto parlando di frodi che sono soltanto bugie, non hanno conseguenze per la salute, ma consentono di vendere a prezzi più alti oli con costi più bassi di quanto la loro presentazione vorrebbe far credere.

Il secondo punto è che queste frodi commerciali non si possono rilevare con le analisi. L'impunità è garantita, almeno quella del sistema giudiziario. Se uno ha la capacità di far tacere la propria coscienza il disturbo è davvero minimo.

Il terzo punto è che penso di avere scoperto perché queste frodi sono facili. Sono facili non solo perché non sono analiticamente rilevabili, ma soprattutto perché i produttori e i frantoiani operano in isolamento e nessuno può veramente controllare quello che fanno nelle loro dispense e nei loro frantoi. Non parlatemi dei sistemi di certificazione, che conosco benissimo, ma che hanno capacità di controllo veramente limitate. Sono la foglia di fico che copre le vergogne di Adamo ed Eva, ma lasciandoli sostanzialmente nudi con il loro peccato.

Il quarto punto è che l'unico sistema di controllo in cui credo è quello che i produttori esercitano fra di loro in difesa di un marchio e di una reputazione comune, ben sapendo che un frodatore fra loro diventa un concorrente sleale. Credo che i produttori di una comunità abbiano modi e opportunità per accorgersi dei comportamenti sleali molto più efficienti di un istituto di certificazione o del richiamo generico all'etica.

Per questo ho cercato di dire con parole e scritti in tutte le sedi a me accessibili quanto potrebbe essere utile la creazione di comunità di filiera oppure, con un'espressione inglese molto nota, “Community of Practice”. La Community of Practice ha molti vantaggi, in particolare: permette di ottimizzare il processo produttivo, favorisce l'aggiornamento degli operatori e stimola il miglioramento continuo perché fa funzionare i feedback derivanti dai controlli. Le mie spiegazioni ragionevoli e documentate non hanno ancora prodotto l'attivazione pratica di Communities of Practices. Io credo che sia soprattutto perché nessuno ha interesse a far vedere quello che fa a casa sua.


(L’articolo è la sintesi della relazione svolta al Convegno ““L’Olivo ed il suo olio,  una storia da proteggere per poterla tramandare”, che si è tenuto a Firenze nella sede dell’Accademia dei Georgofili il 22 novembre 2016)