Alla ricerca di un nuovo dialogo tra città e campagna

di Vittorio Marzi
  • 12 December 2012
“In epoca preindustriale tra città e campagna vi era continuità ecologica. I due diversi paesaggi si integravano armoniosamente. Questo fatto era la conseguenza della modesta dimensione territoriale e demografica dei centri urbani, della vicinanza dei campi coltivati e dei boschi alla città, della presenza all’interno dell’ambiente urbano di abbondanti spazi naturali . Una volta anche le maggiori città potevano essere attraversate a piedi; e l’aperta campagna che iniziava appena al di la delle mura, agevolmente raggiungibile d dal centro cittadino. La misura fisica delle città medioevali trovava il suo limite nella mobilità che le caratterizzava . Le città, dunque, beneficiavano dal punto di vista ecologico della influenza della campagna circostante e, inoltre, potevano contare sul patrimonio di verde produttivo e ornamentale che arricchiva il tessuto urbano” (V. Merlo, “Voglia di campagna, neoruralismo e città”, 2006).
Inoltre, nella situazione orografica italiana, numerosi sono i comuni di montagna e alta collina, nel passato isolati, a causa della mancanza di strade e della sola disponibilità di mulattiere e sentieri, impraticabili nella cattiva stagione. Per questo isolamento, costumanze, tradizioni, credenze, consuetudini alimentari si sono conservate a lungo, per l’assenza di facili comunicazioni, con centri abitati più sviluppati. Di conseguenza, la necessità dell’autosufficienza ha favorito un interessante sviluppo dell’artigianato locale, che ha impegnato risorse e mobilitato energie umane, ha inventato e realizzato processi produttivi nei mestieri più differenziati, in modo cosi capillare, tenace e persuasivo da spalmare profondamente l’intero territorio italiano, come è testimoniato dalla documentazione sul lavoro contadino, che a lungo ha rappresentato il vero concetto della multifunzionalità dell’agricoltura nel territorio. Purtroppo, con il continuo spopolamento della montagna, la testimonianza della civiltà contadina ha finito per scomparire.
Gli agglomerati urbani si sono estesi a vista d’occhio con una velocità mai prima conosciuta, fino a raggiungere dimensioni preoccupanti per i frenetici ritmi quotidiani della vita moderna.
L’urbanesimo ha creato notevoli cambiamenti nelle abitudini alimentari; il lavoro costringe a vivere fuori casa per una buona parte della giornata, è notevolmente aumentato l’occupazione extradomestica della donna, si riduce sempre più la consuetudine del consumo dei  pasti  con la famiglia unita, l’aumento dei “single”, fattori che hanno determinato una sensibile riduzione del tempo libero disponibile per la preparazione in casa dei pasti, per cui è in crescente aumento la grande distribuzione e l’industria alimentare con la tendenza all’uniformità dei consumi.
Una recente indagine ha evidenziato che le modalità di acquisto dei prodotti alimentari avviene per circa il 90-95% nei supermercati, ipermercati e discount, mentre appena il 5-10% nei mercati rionali e negozi al dettaglio tradizionali. Significativo è stato anche il notevole incremento nei supermercati dei prodotti ortofrutticoli di IV gamma, che si propongono al consumatore soprattutto per la riduzione del lavoro domestico nella preparazione dei pasti e per l’utilizzo integrale del prodotto, pulito e conservato, come anche il frequente ricorso ai surgelati, per la loro facile disponibilità e rapidità  di uso.   
La conseguenza è stata la formazione  di una schiera sempre più folta di consumatori, che affida la propria alimentazione all’acquisto di prodotti alimentari, di facile preparazione per essere il consumo immediato (easy to use) o  già pronti. I “piatti precucinati” sono pietanze ad alto valore nutritivo completo e bilanciato da consumare rapidamente anche in piedi.
Un recente articolo del Presidente dell’Accademia Italiana della Cucina,  pubblicato nella rivista mensile “Civiltà della Tavola” (luglio 2012, n. 240) si denunciava una dilagante espansione di analfabetismo gastronomico, al quale è necessario porre la massima attenzione. Certamente, sarebbe un triste destino, per un Paese così ricco di cultura gastronomica come l’Italia, la perdita delle proprie infinite tradizioni alimentari, che influenzano anche i paesi più vicini.
Il recupero delle tradizioni locali incomincia ad essere molto sentito dall’opinione pubblica, come è testimoniato dalla tendenza all’ampia partecipazione alle sagre, fiere, feste religiose, in cui spesso si fondono insieme fede religiosa e il piacere della buona tavola con il recupero dei piatti tipici.
Saper creare un armonico rapporto tra presente e passato, la tradizione e il cambiamento e saperlo gestire  con equilibrio è una testimonianza  di saggezza e buon senso. Ciò significa saper accettare i vantaggi del progresso tecnologico, ma allo stesso tempo sapere conservare le proprie antiche tradizioni, una inestimabile risorsa per la nostra vita.


Dalla relazione svolta dal prof. Vittorio Marzi nell’ambito del ciclo di incontri “Il Giardino Mediterraneo 2012”.

Foto: dal sito www.lucabarbirati.blogspot.com