Una ricerca di Bloomberg nel 2017 ha dichiarato l’Italia come il Paese “più salubre” del mondo per la sua dieta (quella mediterranea, diventata patrimonio dell’UNESCO nel 2010). Eppure in Italia ci sono 450mila ammalati di ortoressia, ovvero persone assolutamente impaurite all’idea di mangiare cibo non adatto o, ancor peggio, dannoso alla salute. Questo tipo di fobia, a vario livello, è spesso alimentata da un tipo di informazione senza basi scientifiche, che colpisce molto frequentemente la carne, soprattutto la carne rossa. Eppure secondo i dati FAOSTAT, in Italia il consumo medio di carne pro-capite è di 96 grammi al giorno, quindi non si può parlare di un consumo eccessivo né tantomeno pericoloso per la salute. Tutt’altro, visto e considerato che nella dieta mediterranea il consumo di carne non solo è previsto ma anche auspicato, almeno 2 volte a settimana. La rinuncia dei consumatori alla carne è molto spesso dettata da pregiudizi di tipo salutistico (“la carne fa male”) o ambientale (“la produzione di carne nuoce all’ambiente”), che non considerano il fatto che quello che conta è la quantità della carne consumata. Per sconfiggere questo atteggiamento occorre educare i consumatori a leggere le etichette, controllare la tracciabilità degli alimenti e, soprattutto, verificare le fonti e la completezza di certe informazioni. Non bisogna dimenticare che le paure alimentari colpiscono un settore che in Italia vale 137 miliardi di euro di fatturato: in due casi emblematici, quello della BSE o “mucca pazza” del 1996 e quello della influenza aviaria H5N1 del 2005, le ripercussioni economiche nel comparto zootecnico furono immediate e molto gravi. Ma l’allarme si verificò eccessivo: infatti, l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ha calcolato che ci siano stati 231 morti di BSE nel mondo in 30 anni e 454 di aviaria in 15 anni; numeri assolutamente irrilevanti nel panorama sanitario del nostro pianeta. D’altra parte, è verificato che i consumatori reagiscono sempre in maniera irrazionale alle “food scares” mentre i giornalisti sanno bene che i titoli sensazionalistici e gridati fanno aumentare l’audience e le vendite. Per quanto riguarda la rinuncia alla carne dettata da motivazioni di tipo etico-animalistico, anch’essa andrebbe ridimensionata: per un allevatore il benessere animale va di pari passo alla produttività e al suo ritorno economico, pertanto trattare animali con gli antibiotici (pratica che causerebbe nell’uomo la temuta “antibioticoresistenza”) non è conveniente e non si fa di abitudine ma soltanto in casi eccezionali. In conclusione, è necessario che scienza e imprese collaborino per aiutare il consumatore a distinguere le fake news dalle informazioni corrette.
Di tutto questo si è parlato nel corso di una giornata di studio su
“Fake news, sensazionalismo e consumo di prodotti animali”, che si è svolta il 5 aprile 2018 all’Accademia dei Georgofili, su iniziativa del Comitato Consultivo per gli allevamenti e le produzioni animali, alla quale hanno partecipato: Luigi Scordamaglia, Presidente di Federalimentare, insieme ai Professori Vittorio dell’Orto, Alessia Cavaliere ed Eugenio Demartini dell’Università di Milano.