Nel terzo capitolo della parte seconda del “Mastro don Gesualdo”, Giovanni Verga descrive la sala grande del vecchio palazzo dei nobili Trao (FOTO), predisposta per i funerali del capofamiglia Don Diego, con i
“parenti seduti intorno sui seggioloni antichi”. Nel successivo capitolo quinto l’Autore, a proposito del battesimo della piccola Isabella, figlia di Bianca Trao e di Don Gesualdo Motta, che viene celebrato in una “sala” attigua annota
“...la sala stessa era ancora parata a lutto, qual’era rimasta dopo la morte di Don Diego, coi ritratti velati e gli stessi alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funerale, com’era uso nelle famiglie antiche”. Numerosi studiosi hanno cercato di spiegare perché i “seggioloni antichi”, del terzo capitolo, diventano “alveari” nel quinto capitolo. Il Mazzarino, nel saggio
“Seggioloni e alveari nella sala grande di Casa Trao”, ha legittimato l’uso del termine “alveari” con ragioni di ordine etnologico, riscoprendo il preciso legame fra api e morte, operante in riti funebri di molte regioni di Francia e Spagna: quali la circumambulazione del cadavere, in cui i partecipanti imitavano a bocca chiusa il ronzio dell’ape, e la copertura con un drappo nero delle arnie alla morte del proprietario di un apiario. Elementi che fornirono al Verga lo spunto, non estraneo alle tradizioni spagnole della nobiltà siciliana. Secondo Sgroi
“gli alveari sono da intendere alla lettera e per ragioni molteplici. Innanzitutto vengono le ragioni filologico-testuali del Mastro. Nella prima redazione del romanzo Verga scrive: “favi da miele coperti di drappo nero che servivano da scanni.” I “favi da miele” (sostituiti poi col sinonimo “alveari”) sono da intendere in maniera inequivocabile alla lettera, e non come “immagine ardita” in virtù proprio della specificazione “che servivano da scanni”. Nell’800 Vizzini, era un centro di consolidata attività apistica ed è pertanto verosimile che, in casa Trao, fossero presenti gli “alveari coperti di drappo nero” ovvero, più correttamente, arnie (alveari senza api). In tale centro apistico era in uso, da tempi immemorabili, l’arnia “favignanese” o “
fasceddu”, che veniva realizzata dagli stessi apicoltori (
fasciddari o
lapari) con porzioni (rocchetti) di steli di ferula (Ferula communis), opportunamente forati e assemblati con fusticini di Agnocasto o di Ulivo, a formare un poliedro a base quadrata delle dimensioni interne di centimetri 19x19x81 ed esterne di centimetri 25x25x86, la cui superficie esterna veniva stuccata con sterco bovino mischiato ad argilla, per chiudere le fessure e ottenere una migliore coibentazione. In tali arnie veniva allevata l’indigena ape nera (
Apis mellifera siciliana) adottando tecniche risalenti all’Antica Grecia.
Tornando alla questione degli “alveari” di casa Trao, considerato che le arnie di ferula, se poste verticalmente, poggiano su una base quadrata di circa 25 centimetri di lato mentre l’altezza è di ben 86 centimetri, appare problematico il loro uso come seggioloni per i parenti che vegliavano il povero don Diego Trao. Più credibile appare l’impiego di seggioloni (
“scanni” o
“firrazzi”) che gli apicoltori tradizionali costruivano, utilizzando i rocchetti di scarto, ottenuti dalla parte basale dei fusti di ferula e poco adatti alla costruzione delle arnie a causa del loro maggiore diametro. Tali
“scanni”, alti circa 40 centimetri, in rapporto alla loro destinazione d’uso, non venivano stuccati con sterco e argilla. La presenza, nella sala grande di casa Trao di “seggioloni”, costruiti con la stessa tecnica delle arnie, e a esse molto simili, potrebbe spiegare perché il Verga, ormai ottantenne, confermò ad Alessio Di Giovanni l’ipotesi, avanzata da quest’ultimo, di un “errore di stampa” rispondendo testualmente
“Ho riscontrato (…..) quegli alveari coperti di drappo nero e non so cosa vogliano dire e come siano sfuggiti a me e all’editore. Ne prendo nota per avvisare al caso l’editore nella nuova edizione”.
Il Mazzarino, nel citato saggio, sostiene la presenza degli alveari anche sulla scorta delle spiegazioni:
“un antico uso siciliano, pressoché scomparso dopo il primo quarto del secolo, consisteva nel preparare per gli invitati, in occasione di funerali solenni, proprio delle arnie al posto di sedie” date dallo stesso Verga alla olandese Malvina Twis nel 1890, pochi mesi dopo la pubblicazione del Mastro don Gesualdo, e successivamente al magistrato Roberto Giusti, amico del traduttore olandese W.F. de Jonge. Tale spiegazione è attendibile solo supponendo che le arnie, allestite per il rito funebre, venivano poste in senso orizzontale e sovrapposte a due a due; infatti solo così è possibile ottenere “seggioloni”, alti circa 50 centimetri, non certamente igienici (per via dello sterco di rivestimento). Difficile sarebbe stato, per parenti del Trao, stare
“seduti intorno sui seggioloni antichi col viso lungo e le mani sul ventre” se tali seggioloni fossero state arnie poste verticalmente, alte 85 centimetri e poco stabili a causa della piccola base. Per contro certamente più adatti e stabili sono i
“firrazzi”, alti circa 40 cm, che vengono ancora realizzati e sono presenti e funzionali in molte abitazioni iblee.
(FOTO SOTTO Arnia tradizionale a sinistra, “Firrazzu” a destra).