Alla fine il tanto sospirato Tavolo nazionale dell’ortofrutta è arrivato. In extremis ma è arrivato, e il merito è anche un po’ nostro, di noi del Corriere, che abbiamo sempre tenuta alta l’attenzione su questa incredibile latitanza ministeriale, fino a scrivere “dell’insostenibile inutilità del Ministero”. Sottolineo che nel mondo dell’informazione di settore siamo stati soli in questa battaglia, e questo qualcosa vorrà pur dire. Comunque la nostra (voluta) provocazione qualcosa deve avere mosso se è vero che il 20 dicembre, a due settimane dal nostro articolo, proprio sotto l’albero di Natale, è arrivata dal Ministero la tanto attesa convocazione. La prima riunione è stata molto affollata (forse fin troppo), ed è servita più che altro a mettere a punto una agenda per il 2018. Che cambi o no il governo nel 2018, anno elettorale, qualche punto fermo è stato messo. Le priorità, su cui tutti hanno convenuto, sono: il catasto ortofrutticolo nazionale, indispensabile per programmare investimenti e rinnovamento varietale; apertura di nuovi mercati di sbocco per il nostro export e relativi dossier fitosanitari; iniziative per gli indigenti e gestione dei surplus in tempi di crisi; maggiori controlli sull’import, semplificazione burocratica nella gestione dell’Ocm. Sullo sfondo la conferma dell’Ocm ortofrutta nei futuri negoziati europei sulla Pac 2020. L’impressione è che se si vuole cavare qualche risultato da questo Tavolo – fatto, ripetiamo, importantissimo, vista la latitanza del Ministero finora sull’argomento - si dovrà andare ad un “Tavolino” più ristretto, un organismo ridotto vicino agli interessi e alle necessità delle imprese. Vogliamo chiamarla ‘cabina di regia’? E sia. Per un comparto molto frammentato, che fa fatica a fare sistema, sarebbe un risultato straordinario.
Diciamolo francamente: potenzialità e criticità del comparto ortofrutticolo italiano emergono anche nel bilancio di questo 2017, come sempre in chiaroscuro. L’export continua a tirare e confermerà più o meno i risultati (già buoni) del 2016; fenomeni come il biologico, la IV e V gamma, i piccoli frutti crescono e indicano un percorso virtuoso in linea con i nuovi stili di vita e consumo. C’è una “rivoluzione vegetale” in atto, anche qui legata alla voglia di wellness, che sta rilanciando il mondo degli ortaggi a scapito della frutta. Le nostre tecnologie (macchine e packaging) sono sempre più leader nel mondo.
Sull’altro piatto della bilancia ci sono i consumi interni che non ripartono, la crisi (ormai strutturale) della frutta estiva (in primis pesche/nettarine), cui bisognerà prima o poi opporre un progetto, una qualche idea che non siano i ritiri finanziati dall’Europa; la necessità di un profondo rinnovamento varietale in linea col mercato; la continua perdita di superfici coltivate; lo spread sempre più ampio che ci separa dai principali paesi esportatori: siamo al sesto posto in Europa, con tendenza a scendere, e la Spagna è sempre più lontana. Ormai i due veri cavalli di battaglia del nostro export sono mele e kiwi, mentre perdiamo colpi nelle pere e nelle pesche, l’uva da tavola si difende a denti stretti, e negli agrumi siamo ormai colonizzati dagli spagnoli. Qualche segnale positivo sul fronte export arriva dalla IV gamma, una vera novità.
Concludendo: il male di fondo dell’ortofrutta italiana sta nella continua, inarrestabile perdita di competitività delle sue imprese, figlia a sua volta di prezzi bassi all’origine, redditività calante, mancanza di investimenti. In sostanza manca il riconoscimento da parte del mercato del valore delle nostre produzioni ortofrutticole, su cui poi si scaricano tutte le contraddizioni del sistema Italia: burocrazia infinita e devastante, logistica e trasporti inefficienti e costosi, fisco vessatorio, costi del lavoro fuori controllo, concorrenza sleale all’interno della stessa Europa…A tutto ciò le imprese reagiscono impegnandosi nel contenimento dei costi e nell’innovazione di processo e di prodotto, ma non basta. Per questo serve il Tavolo nazionale e servirebbe ancor di più una Cabina di regia dove ragionare come ‘sistema Paese’ in un’ottica strategica e non puramente tattica, risolvendo le emergenze di volta in volta. Mi ha colpito la frase di un produttore romagnolo, Francesco Donati, presidente della Federazione nazionale frutticoltura di Confagricoltura: “Non possiamo morire di fame per dare da mangiare agli altri”. Il tema del valore ormai è centrale per il futuro del comparto ortofrutta. Un tema che passa attraverso il rapporto con la Gdo. La frammentazione del mondo produttivo, l’esasperata concorrenza, l’individualismo finora hanno fatto il gioco dei buyer delle catene distributive che impongono prezzi spesso da fame e una contrattualistica penalizzante per le imprese (dov’è finito l’art.62?). Ogni tanto il mondo dell’ortofrutta si ritrova in eventi in cui è in realtà la Gdo che detta la linea, spiega ai convenuti in sala (che oltretutto pagano) che non sanno programmare, che fanno poca qualità, che si devono organizzare meglio…nessuno si azzarda a fare domande scomode a lorsignori. Dopo tutte queste prediche le cose restano come prima: la logica che prevale è sempre quella del prezzo più basso, del prezzo ‘da fame’ che il produttore singolo o associato accetta perché non ha alternative. Il problema non è solo italiano, ma qui è più grave che altrove perché la nostra disunione fa la forza della Gdo. Le catene distributive sono un partner prezioso del mondo produttivo/commerciale, un partner indispensabile perché dialoga direttamente col consumatore e quindi col mercato. Non si deve però tramutare in carnefice, col consenso silenzioso della vittima.
Ai nostri lettori vogliamo dire, coi nostri auguri per un felice e proficuo 2018, che il Corriere starà sempre e solo dalla parte delle imprese, che per noi sono i veri soli Protagonisti dell’ortofrutta, che ci apprestiamo a celebrare nel nostro evento annuale il 19 gennaio alla Reggia di Caserta.
*Direttore del Corriere Ortofrutticolo