In un editoriale sulla “Rivista di Frutticoltura” dello scorso settembre
il prof. Silviero Sansavini fa il punto sulla crisi del settore
pesche/nettarine che ha colpito duramente il mondo produttivo sia del
Nord che del Sud nell’estate 2017. Il titolo “Senza aggregazione
dell’offerta e senza alta qualità la peschicoltura smobilita?” dice
subito dove va a parare il pensiero del Prof, anche se personalmente
avrei tolto il punto interrogativo. Sull’argomento ci siamo esercitati
anche noi del Corriere Ortofrutticolo, con vari commenti a firma del
sottoscritto, e dei nostri valenti collaboratori Duccio Caccioni,
Claudio Scalise e Corrado Giacomini. Sansavini è uno studioso/scienziato
autorevole e stimato della nostra frutticoltura e vale la pena di
seguire il suo ragionamento.
“Evidentemente scrive il Prof -
l’offerta pesche, gestita frammentariamente da cooperative/consorzi e da
singoli gruppi di produttori, in aperta concorrenza fra loro, non è
riuscita a fronteggiare un mercato aperto al prodotto estero e senza che
le pregresse deboli misure messe in atto dall’UE abbiano avuto alcun
effetto (ritiri autorizzati in misura fra l’altro assai inferiore a
quelli della Spagna). Nel pesco, purtroppo, non si è ancora formata
un’aggregazione dell’offerta sufficiente per incidere sui prezzi.
Mancano le iniziative (es. brand fiduciari e territoriali), impostesi
sul mercato a favore di mele, pere, kiwi, anche per poter sviluppare una
politica dei prezzi”.
La Romagna è l’area più colpita dai prezzi
bassi: ”tanto che, con molto ritardo (sono passati quasi venti anni
dall’IGP concessa nel 1998 alla “Pesca e nettarina di Romagna”) ha
chiesto il riconoscimento del Consorzio di Tutela costituito fin dal
2002, ai fini del controllo delle attività; Consorzio che copre cinque
province, da Bologna a Rimini, ma per una superficie certificata di
appena 200 ettari (non è un errore di stampa!)”.
Sansavini dà conto
dei generosi tentativi messi in campo (dall’Oi, dal Cso, dal Tavolo
romagnolo…) durante l’estate con esiti quasi impalpabili. “L’annunciato e
speranzoso “tavolo ortofrutticolo nazionale” è invece ancora latitante.
Il Ministero lo convocherà solo a settembre, dopo le ferie! È questo
che vogliamo? Per aprire la strada ad un’altra drastica riduzione delle
superfici? Non sarebbe meglio intraprendere prima auspicabili misure
strutturali, a cominciare dalla sottrazione dai mercati delle pesche di
scarso valore, come le pezzature D (sottomisura) e poi anche delle C?
Mancano certamente le condizioni per assumere, a livello nazionale,
decisioni
erga omnes, perché la produzione delle APO-OP non
raggiunge ancora il 50% di quella nazionale e poi dovrebbe andare oltre;
l’“aggregazione”, dunque, è ancora insufficiente, anche perché viene
finora intesa come “assorbimento di gruppi” (coop, ecc.) minori da parte
di quelli maggiori, mentre dovrebbero essere questi ultimi a mettersi
insieme per iniziative comuni”.
Ma sono solo queste le strade da
seguire per riportare a dignità la coltura del pesco?, si chiede il
Prof. “Per risollevare anche il livello qualitativo del prodotto, che
forse non è più sufficientemente curato come in passato? Non mancano
certo le conoscenze tecniche, ma chi ripaga i produttori dei maggiori
oneri e costi per ottenere produzioni di qualità eccellenti? Non
vorremmo che una certa e generale sfiducia nel pesco prendesse il
sopravvento. Per qualcuno la coltura del pesco è già in via di
abbandono, soprattutto in alcune zone tipiche del Nord, proprio laddove
si dovrebbe invece fare di tutto per difendere le posizioni di mercato. I
paesi concorrenti sono pronti ad occupare gli spazi lasciati liberi
dall’Italia”.
Conclusioni: “Questa è stata dunque un’altra annata
disastrosa, nella quale l’Italia ha perso ulteriormente peso sui mercati
europei che contano e pagano bene (i
discount tedeschi vendono
le pesche italiane ad appena 0,50 € al cestino!). I mercati, comunque
vada, si salveranno con l’importazione, e così pure i consumatori
avranno pesche straniere in maggiore quantità e magari di migliore
qualità (si veda la capillare e massiccia penetrazione delle pesche
spagnole, soprattutto quelle piatte, in tutti i nostri mercati); ma, se
così sarà, il nostro settore peschicolo tradizionale sarà costretto ad
abdicare; i coltivatori dovranno cercare altre fonti di reddito. Prima
di finire c’è da chiedersi anche: gli organismi politici sono attenti
alle conseguenze di questa possibile smobilitazione? Una volta si
sentivano forti accenti (a parole) sulla necessità della programmazione
degli impianti e del censimento catastale, sugli incentivi UE ancora
oggi disponibili (affidati per il rinnovo dei frutteti ai gruppi coop
attraverso l’OCM), oppure sulla tutela della produzione integrata e dei
marchi riconosciuti dall’Europa. Si sono fatte molte chiacchiere sugli
accordi stipulati con gli altri paesi mediterranei attraverso l’Areflh
per interventi comuni e coordinati, ma non sembra che ciò sia avvenuto.
In futuro si salverà, forse, solo la coltura biologica del pesco, come
sostiene qualche esperto? Sapremo risvegliarci da questo torpore e fare
qualcosa che conti oppure “ognuno per sé e Dio per tutti?”.
Sto dando
conto del ragionamento di Sansavini perché è in linea con le
argomentazioni qui svolte da Caccioni, Scalise e Giacomini. Come dire,
ragionando senza paraocchi, con realismo e fuori dai luoghi comuni si
arriva tutti alle stesse conclusioni. Servono interventi strutturali da
concordare come sistema Italia; serve un Piano di azione concordato tra
Ministero, regioni e grandi player del settore in sintonia con azioni
da svolgere a Bruxelles anche attraverso la lobby dell’Areflh; serve più
aggregazione ma quella ‘buona’, quella che punta a efficienza e
competitività, non quella ‘prendi i soldi e scappa’. Aggregazioni
produttive o anche solo commerciali (tipo Opera o Origine Group).
Servono incentivi e fondi per ristrutturare i frutteti, per fare più
qualità. Oggi le imprese hanno raschiato il fondo del barile (chi
investe più sulle pesche? La tendenza è a spiantare gli impianti). Serve
un tavolo, un luogo dove concordare progetti e iniziative con la Gdo,
almeno con quella che si dice più attenta al made in Italy. L’annunciato
Tavolo nazionale ortofrutta (siamo già a ottobre) batterà un colpo?
Però,
non illudiamoci, serve un progetto vero che nasca dal settore, una
idea-guida che ridia slancio al mondo produttivo e motivazioni al
consumatore, altrimenti saremo sempre qui a piangerci addosso e chiedere
l’elemosina dei ritiri. Se il focus su cui lavorare per togliere il
settore dalla palude dell’anonimato e della commodity è la riconversione
all’alta qualità e al biologico, il sistema lavori su quello. Magari
perderemo altre superfici, ma quello che resta avrà un futuro.
*Direttore del Corriere Ortofrutticolo