Negli ultimi anni il burro è stato vittima di un immeritato ostracismo causato da miti e pregiudizi, tutt’ora in auge. Si sente dire infatti che “il burro è più grasso dell’olio” – “per mantenere la linea bisogna abbandonare i condimenti grassi” – i grassi di origine animale vanno demonizzati “- “il burro va dimenticato perché contiene colesterolo”.
Il libro appena uscito del nutrizionista Renzo Pellati, “Conoscere e gustare il burro” (Daniela Piazza editore), con Prefazione del nostro accademico Giovanni Ballarini, mette in luce le attuali conoscenze di scienza dell’alimentazione su questo alimento presente in tavola da secoli.
Infatti si tratta di un condimento che trova un particolare impiego in cucina perché possiede un particolare sapore dovuto allo sviluppo di microrganismi presenti nella crema del latte durante la lavorazione (aldeide acetica, aldeide isovalerianica, diacetile, originati dalla fermentazione del lattosio, dalla degradazione dell’acido citrico e dei citrati). Il burro inoltre presenta un basso punto di fusione, in virtù del quale presenta una facile digeribilità che lo distingue dagli altri grassi di origine animale.
Il valore alimentare è elevato: 758 calorie per ogni 100 g (inferiore alle 900 calorie dell’olio di oliva e di semi, per la presenza di circa il 15 % di acqua), e circa 1/3 degli acidi grassi totali è rappresentato da acidi grassi insaturi e 2 /3 da acidi grassi saturi soprattutto a catena corta, oggi rivalutati dalla moderna dietologia. Il burro inoltre contiene vitamine liposolubili (in particolare vitamina A), colesterolo, alcuni elementi minerali, tracce di lattosio, proteine e fosfolipidi.
Negli anni 50’ però venne alla luce l’importanza del colesterolo nell’ambito delle patologie cardiovascolari e l’affermazione della margarina, un condimento di aspetto simile al burro, ma di composizione completamente diversa. Inoltre Ancel Keys, dell’Università del Minnesota, con lo studio “Seven Countries” (condotto in 7 Paesi, esaminando 13.000 uomini e donne statunitensi, europei e giapponesi) dimostrava che le malattie cardiache non erano una naturale conseguenza dell’invecchiamento, ma dipendevano da un’alimentazione scorretta e squilibrata.
Nel 1961 furono emesse le prime Linee Guida dell’American Heart Association contro gli acidi grassi saturi e un consenso generale per la Dieta Mediterranea. Di conseguenza ebbe inizio l’ascesa dei consumi dell’olio di semi, delle margarine ottenute dai suddetti olii, dell’olio d’oliva e la diminuzione dei consumi di burro.
Occorre ricordare che la margarina (inventata da un farmacista francese: Hyppolite Mège-Mouriès nel 1870 per volere di di Napoleone III) inizialmente era un’emulsione contenente una parte grassa e una acquosa.
La parte acquosa era costituita da latte scremato, la parte grassa era costituita dal sego (grasso bovino raffinato). Mège-Mourier diete il nome di “oleo-margarina” al suo prodotto in considerazione del fatto che il grasso in emulsione appariva al microscopio come una perla (in greco “margaron” significa perla).
Negli anni successivi il prodotto subì varie modificazioni nella composizione per l’utilizzo di grassi animali (olio di balena, grasso di bue) e grassi vegetali (olio di soia, di arachide, mais, girasole).
La situazione cambiò quando un chimico tedesco (Wilhem Norman) nel 1903 trovò il modo di addizionare idrogeno (in presenza di un catalizzatore inerte, generalmente nichel) agli acidi grassi insaturi caratteristici degli olii di semi, i quali diventano saturi assumendo consistenza solida simile al burro. L’impiego della margarina vegetale nelle ricette di cucina era ed è praticamente sovrapponibile al burro.
In considerazione dell’assenza di colesterolo e del minor contenuto di acidi grassi saturi rispetto al burro, la margarina fu accolta in modo favorevole ed ebbe un largo successo di vendita.
Tuttavia studi e ricerche successive evidenziarono che il processo di idrogenazione a cui erano sottoposti i grassi liquidi di origine vegetale per diventare solidi, produceva anche una percentuale di acidi grassi denominati “trans” che per il nostro sistema cardiocircolatorio erano più dannosi dei grassi saturi che si voleva sostituire. Di conseguenza venne meno l’immagine salutistica attribuita alla margarina e nuovamente rivalutato il burro.
In questi ultimi mesi ha ottenuto un crescente successo l’olio di palma che a differenza degli altri olii vegetali sin’ora utilizzati, ha un contenuto relativamente alto di acidi grassi saturi: ha un sapore neutro, per cui non influenza altri ingredienti. L’olio di palma ha avuto successo soprattutto nell’industria alimentare per la capacità di conferire ai prodotti la necessaria “croccantezza” e“cremosità”. Resiste al calore e all’ossidazione per cui aumenta la durabilità dei prodotti. Viene prodotto soprattutto in Malesia e Indonesia (circa l’86 % della produzione mondiale).
L’olio di palma utilizzato per l’alimentazione viene definito “sostenibile” perché coltivato tenendo conto dell’ambiente e delle comunità che lo producono: vale a dire senza praticare una deforestazione incontrollata. Quindi ha origini conosciute e tracciabili.
L’olio di palma grezzo è di colore rossastro per l’elevato contenuto di carotenoidi, praticamente assenti nel raffinato. A temperatura ambiente è solido o semisolido, ma attraverso il processo di raffinazione si può separare in una componente liquida e una solida.
L’olio di palma non contiene colesterolo, però recenti studi messi a punto dall’EFSA (European Food Safety Authority) hanno evidenziato che durante i processi di raffinazione che si effettuano a temperatura elevata (circa 200 °), si formano 3 sostanze tossiche creando problemi nell’ambito alimentare. I tre contaminanti sono il GE (estere glicidico degli acidi grassi), il 3-MCOD (mono cloropropandiolo), il 2-MCPD (2-monocloropropandiolo). Il problema riguarda anche altri oli vegetali e margarina, ma l’aspetto saliente è che il grasso tropicale ne contiene da 6 a 10 volte di più.
Le industrie alimentari italiane qualificate oggi sono in grado di utilizzare il frutto di palma proveniente da coltivazioni “sostenibili” e di praticare successivamente la sterilizzazione con un trattamento di vapore. La spremitura e il processo di raffinazione e di lavorazione vengono effettuati in tempi brevi a bassa temperatura.
L’ostracismo al burro oggi è dovuto principalmente al contenuto di colesterolo, però occorre precisare che una porzione di burro, 10 grammi, contiene 24 milligrammi di colesterolo, pari all’8 % della dose consentita di colesterolo alimentare (300 mg). L’organismo umano ad ogni età ha bisogno di colesterolo e, se non lo si introduce con l’alimentazione, le cellule lo producono da sé. Oltre al colesterolo esogeno introdotto con l’alimentazione abbiamo il colesterolo endogeno che produce il fegato.
Non introdurre il colesterolo con gli alimenti stimola il fegato a produrne di più al fine di assicurare una sana e vitale risposta alla domanda personale che ogni organismo ha di colesterolo per trasformarlo in ormoni steroidei, estrogeni, progesterone, testosterone, cortisolo, essenziali per una corretta funzionalità e integrità dell’intero corpo.
Le Società Scientifiche che si occupano di Nutrizione Umana oggi concordano nel proporre un totale giornaliero di grassi non superiore al 30 % del fabbisogno calorico totale (perciò circa 60-70 g di cui 20-25 g anche in forma di acidi grassi saturi, per una dieta di 2000 kcal/die). I restanti acidi grassi saranno “insaturi” provenienti dall’olio extravergine di oliva, dagli omega-3 provenienti dal pesce azzurro, dagli omega-6 provenienti dai legumi e dalla frutta secca.
Di conseguenza non possiamo mangiare tutto il burro che vogliamo. Le dosi e le porzioni vanno sempre rispettate per rendere la dieta equilibrata, la quale però dev’essere anche varia per poter essere praticata nel tempo.
E quindi è possibile allietare la tavola con il burro che è un cibo dotato di caratteristiche degne della maggior considerazione.