Il dibattito economico sui criteri per impostare la politica di bilancio per la correzione relativa al resto dell’anno in corso (la cosiddetta manovrina) e per il documento di programmazione di quello successivo (DEF) è stato debole. Forse perché sono poche le notizie nella fase preparatoria o perché fra queste prevalgono, spesso, intenzioni e ipotesi mentre risalta la mancanza di un coerente disegno di politica economica oltre l’episodicità di molte misure.
Tuttavia si possono cogliere nell’aria le tendenze che si diffondono e influenzano i comportamenti della politica. Fra queste, sia in ambito economico generale, sia in quello più contenuto dell’agricoltura sia, infine, fra la gente alle prese con un’economia che ristagna, sembra farsi strada la propensione verso politiche di tipo protezionistico. Ve ne è traccia nelle richieste che comparti produttivi e categorie avanzano con crescente insistenza e nel tentativo di formare un movimento politico per il recupero di sovranità.
Un ritorno al protezionismo, dopo oltre mezzo secolo di prevalenza di liberalizzazione dei mercati e di riduzione di ogni tipo di barriera, non deve sorprendere. Il pendolo della storia in questo campo ha compiuto numerose oscillazioni in una direzione o in quella opposta, anche se nel lungo termine sembra prevalere l’impulso alla liberalizzazione. Uniche eccezioni, comprensibilmente, i grandi conflitti, le catastrofi di proporzioni immani o eventi della stessa tragica grandezza. Non è questo il caso, mentre emerge l’incapacità di trovare risposte razionali al problema della ripresa economica senza intaccare le situazioni esistenti di benessere, di welfare, di meccanismi sociali e politici consolidati.
È da ciò che nasce l’impossibile fuga verso un passato fatto di confini, frontiere, gendarmi e dazi che incombevano sui passaggi di merci, servizi e persone. Si sente proporre l’imposizione di dazi e di misure doganali rafforzati in contrasto con accordi e trattati che andavano in senso opposto dei quali è ancora fresco l’inchiostro con cui sono stati scritti. La tendenza è tanto diffusa da includere addirittura gli US, un paese da sempre favorevole all’apertura dei mercati. Il loro Presidente con il suo primo atto ha rifiutato la ratifica del Trattato del Pacifico, il TPP, mentre si bloccavano tacitamente e senza eccessivi rimpianti gli altri Trattati in itinere. Per anni si è lavorato a ridurre dazi, abbattere barriere non tariffarie, discutere su quelle fitosanitarie spesso usate impropriamente. Persino le denominazioni d’origine, tanto care ai paesi del sud dell’Ue, sono fortemente contrastate dagli altri paesi perché considerate limitazioni occulte agli scambi. Nello stesso contesto di contrapposizioni si muove anche l’etichettatura che l’Italia sta introducendo unilateralmente per alcuni prodotti e non tutti i paesi Ue condividono. Qui si apre un diverso fronte che ci sta molto a cuore: la lotta alla contraffazione dei cibi e alla vendita di alimenti di qualità e origine incerte, spacciati come italiani. La questione non riguarda la libertà degli scambi, che è un’altra cosa, ma più banalmente comportamenti fraudolenti che come tali vanno contrastati.
Sul piano generale ritorna una visione ottocentesca, fatta di dogane e gendarmi, di città e contadi, ognuno con la propria frontiera e il relativo dazio. Ad una concezione in cui le frontiere separano anche in economia. Monumenti muti ad un passato di divisioni che sembrava superato per sempre.
Ma è pur sempre un abbaglio. Occorre uscire dalla favola e rientrare nella realtà dove le aperture dei mercati stimolano la competitività, fanno sviluppare la ricerca e l’innovazione, rendono tutti più ricchi al termine dello scambio. In cui le frontiere sono le cerniere di unioni più vaste e vantaggiose. Lo insegna la teoria economica degli scambi internazionali e lo conferma l’esperienza. Ecco perché, al di là del fascino retrò di certe idee, è meglio mantenere saldamente la testa nel presente e per il futuro guardare con fiducia al progresso e alla libertà degli scambi.