Dalla fondazione di Roma alla caduta dell’impero romano d’occidente passano oltre mille anni, non é quindi possibile parlare di una cucina romana antica e, quando questo avviene, per lo più ci si riferisce a quella del fastoso periodo imperiale. Mentre nella Roma monarchica e soprattutto repubblicana prevale una cucina povera prevalentemente vegetariana, nella Roma imperiale molti documenti diretti e indiretti indicano un quasi completo cambiamento e, nei ceti ricchi, l’avvento di una abbondante cucina e di una sfarzosa gastronomia, in conseguenza di almeno cinque condizioni.
Con lo spostamento degli eserciti romani in lontane regioni, soprattutto i comandanti delle legioni si aprono alla conoscenza di nuovi alimenti e di cucine diverse, modificando anche i loro gusti. In seguito delle conquiste, a Roma e in Italia sono importate, coltivate e allevate nuove specie vegetali, soprattutto alberi da frutta, e animali e, tra questi ultimi, il pavone, la gallina di faraona, il fagiano e il coniglio. Con la pax romana, la globalizzazione dei commerci porta a Roma alimenti da tutto il bacino mediterraneo e oltre, fino alle spezie che arrivano dal lontano oriente, con una varietà di cibi che impreziosisce la cucina e sviluppa una gastronomia sempre più esclusiva che porta in tavola anche le lingue di fenicotteri. L’incremento del reddito si accompagna – secondo a una regola generale dell’antropologia dei consumi – all’aumento di alimenti pregiati e tra questi soprattutto della carne e del pesce. Infine a Roma, spesso come schiavi poi affrancati in liberti, dal vicino oriente arrivano cuochi che insegnano ai ricchi romani l’arte di raffinate gastronomie.
Nella Roma imperiale di circa un milione d’abitanti convivono le più diverse etnie e culture, dagli ebrei con le loro regole alimentari ai pitagorici strettamente vegetariani, e avviene un continuo interscambio di gusti per cui si arriva a mangiare di tutto e in tutti i modi, come in un’altra antichissima cultura asiatica per la quale “un cinese mangia tutto quello che ha quattro gambe, meno il tavolo; tutto quello che vola, meno gli aquiloni; e tutto quello che sta in acqua, meno la barca”.
Nella Roma imperiale grande attenzione riscuotono le carni e i pesci, sviluppando mode e poi consuetudini che rimangono a lungo presenti nella gastronomia dei popoli europei di dominazione romana, come il fegato grasso di palmipedi. Allo stesso modo avviene nella cucina popolare della penisola italiana, dove l’abitudine dei romani antichi di mangiare ogni tipo di carne si mantiene fino alla metà del secolo passato e, soprattutto nelle campagne, non si ha timore di mangiare i ricci, gli scoiattoli e i ghiri, ghiottonerie della gastronomia romana, e in periodi di fame anche il gatto, in ratti e i topi.
Quali erano le preferenze gastronomiche dei romani abbienti del primo secolo dell’era corrente, il poeta Marco Valerio Marziale ce lo dice nel menù con il quale invita a cena Giulio Ceriale: Cenabis belle, Iuli Cerialis, apud me…(Epigrammi - Liber undecimus, LII). Per prima cosa, per stuzzicare lo stomaco, ti sarà servita la lattuga, insieme ai filetti tagliati di porro; poi un tonno conservato, più grande di uno sgombro, ricoperto da uova accompagnate da foglie di ruta; non mancheranno uova cotte sotto uno strato di cenere. Né il formaggio rappreso nei forni del Velabro, né le olive che hanno conosciuto il freddo del Piceno. Basta per l’antipasto. Vuoi sapere il resto? Mentirò per farti venire: pesci, molluschi, tette di scrofa, uccelli grassi di cortile e di palude, che Stella serve soltanto nelle occasioni particolari. Evidente è l’ampia presenza di carni e di pesci (anche conservati come ancor oggi il tonno) cucinati dalla sua cuoca che, per le uova, usa anche la cottura lenta a bassa temperatura (nella cenere) oggi tanto di moda. Il menù di Marziale dimostra anche quanto questo poeta sia un prezioso testimone del cambiamento nella cucina dei romani abbienti, passati dalla alimentazione vegetariana di pultes, polenta di cereali e leguminose di una precedente dell’età repubblicana, a una cucina di carni raffinate e pesci della sua età imperiale.
La cucina e la gastronomia dei romani del primo secolo dell’era corrente sono state oggetto di molte, importanti considerazioni di Marco Valerio Marziale che nei suoi epigrammi cita cibi, descrive cene familiari e opulenti banchetti che ci fanno conoscere le abitudini e i vizi dei suoi cittadini ricchi, non molto dissimili da quanto accade ancora oggi. Molte sono le carni della cucina citate da Marziale oggi insolite se non esecrate, disprezzate e odiate o proibite, con interessanti richiami storici e mitici, che oggi ci permettono considerazioni soprattutto antropologiche. Tra le carni considerate vi sono quelle di cigni, fenicotteri e gru, pavone, gatto, asini e onagri, ghiri, ma anche agnelli, capretti e conigli, di molta selvaggina grande e piccola e di altri animali, senza che siano state dimenticate le carni di maiale, fresche e conservate che hanno dato origine ai nostri salumi.
La comparazione tra la cucina delle carni nella Roma antica e quella di oggi è l’occasione per affrontare in modo dialettico e spassionato gli aspetti antropologici del relativismo culturale del carnismo, partendo dalla affermazione provocatoria di Claude Lévi-Strauss che se gli animali sono i nostri fratelli, allora tutti siamo cannibali, con tutto quel che ne segue. Argomenti questi che, assieme ad altri riguardanti le carni usate nella cucina e gastronomia della Roma imperiale, sono oggetto di un dettagliato esame e approfondimento nel libro di recente pubblicazione A tavola con gli antichi Romani – Eccellenze, scandali, oscenità della cucina di Marziale (Il Melangolo, Genova, 2017) di Giovanni Ballarini, antropologo che da oltre trenta anni studia gli aspetti sociali e culturali dell’alimentazione umana.