“La carta senza fine” di Pistoia

di Lucia Bigliazzi, Luciana Bigliazzi
  • 22 March 2017
Pistoia, capitale italiana della Cultura per il 2017 richiama anche alcuni fra i suoi più illustri concittadini. Questa volta è la famiglia Cini, in particolare Giovanni, il fratello Cosimo, Bartolomeo e Tommaso figli di Giovanni,  e la loro Cartiera sul fiume Lima così come ci viene descritta dal georgofilo Rinaldo Ruschi in una corposa relazione dell’ottobre 1851. 
L’interesse per la produzione della carta era di antica data nella famiglia Cini e Giovanni (1778-1844), insieme al fratello Cosimo (1785-data incerta), aveva dato vita all’inizio dell’Ottocento a tanti piccoli opifici lungo il torrente Limestre. Tutto favoriva questo tipo di manifattura, dall’aumentato interesse per la carta stampata (giornali e produzione editoriale in genere) alla posizione geografica, favorevole all’introduzione della materia prima (gli stracci), ai numerosi torrenti e fiumi presenti nel territorio pistoiese, indispensabili per mantenere attivi gli opifici.
Negli anni ’20 dell’Ottocento, dopo aver poco a poco chiuse le diverse manifatture (salvo tre che rimasero attive fino al 1839), Giovanni a nome della Società costituita nel 1807 fra lui e il fratello, avanza richiesta di una concessione per impiantare sul fiume Lima una più grande e moderna cartiera, che già dal 1822 lavorava a pieno ritmo.
Rinaldo Ruschi nell’agosto del 1851 aveva effettuato un sopralluogo insieme ad un amico nello stabilimento sul Lima; entrambi erano rimasti stupiti quando usciti dal silenzio un po' magico di quei boschi interrotto soltanto dal rumore delle acque del fiume, avevano intravisto in lontananza un edificio che per ampiezza e stile indicava la presenza “d’un grande fabbricato industriale”. Ed ancor più erano restati affascinati quando, varcato il grande cancello di ingresso, si erano trovati in un luogo che assomigliava assai più ad un villaggio che ad una struttura industriale (Là infatti tu vedi una Chiesa, qua delle botteghe e un Caffè, e più oltre dei grandi casamenti per l’abitazione dei lavoranti e d’altri impiegati).

Una piccola comunità questa dell’opificio sul Lima, così come l’avevano voluta Giovanni e Cosimo Cini e   i loro continuatori, Bartolomeo (1809-1877) e Tommaso (1812-1852).
Chiesa, botteghe, caffè, asili e scuole, ma anche un cappellano che oltre le pratiche e i servizi di Chiesa, svolgeva funzione di maestro ed educatore (in questo contesto ricordiamo che il metodo da lui adottato fu quello del Reciproco Insegnamento introdotto dai Georgofili in Toscana fin dal 1818) ed ancora un maestro di musica che presiedeva alla scuola fondata nel villaggio e che in poco più di un anno era riuscito a costituire fra lavoranti e ragazzi una banda musicale che aveva già dato prova della propria abilità. La Società di Mutuo Soccorso creata inoltre all’interno di questo microcosmo sosteneva i lavoranti e le famiglie in caso di necessità.
Un villaggio dunque che tutelava anche la vita quotidiana delle famiglie cercando di garantire benefici e stile di vivere che poco spazio lasciavano ai vizi e all’inedia, al punto che ad esempio, come rimarcava Ruschi, il salario non veniva mai erogato alla vigilia dei giorni del mercato delle granaglie, ma il giorno stesso, sì da non lasciar tempo per spese inutili e dannose all’economia familiare.


Bartolomeo e Tommaso oltre alla produzione manuale della carta secondo l’antico secolare metodo introdotto fin dal Medio Evo in Europa, ed oggi ancora in uso presso cartai di quel territorio e riportato alla luce e riattivato anche grazie a strutture museali come ad esempio il Museo della carta di Pescia  (www.museodellacarta.org), avevano apportato grandi novità introducendo macchine dall’Inghilterra, modificandole e migliorandole al punto che la produzione era notevolmente aumentata e tale da garantire un rilevante commercio anche con l’estero (La quantità della carta che si fabbrica annualmente alla Lima, si valuta a sopra 200.000 risme, equivalenti in peso a due milioni di libbre di carta di ogni genere e qualità, come sarebbe da scrivere, da stampare, da disegnare e da involgere, come che cartoni e carte o biglietti di banca di sicurezza, cartelle di valori pubblici o industriali). 

La lavorazione e produzione della “carta senza fine” o “carta continua” aveva attratto i due visitatori al punto che Ruschi ne aveva registrate le diverse fasi con puntuale e meticolosa attenzione, sottoponendo addirittura il testo agli stessi Cini (Tommaso in particolare) per la sua revisione, come attestano alcune note correttive poste a margine del suo elaborato.


Le fasi della lavorazione erano quelle note da secoli: scelta degli stracci, lavatura, imbiancatura, macerazione; cambiava invece radicalmente il metodo di produzione: dal telaio che tratteneva la pasta che pressata, fatta asciugare ed essiccare dava origine al foglio, alla “tela metallica continua” che garantiva lunghezza senza fine alla carta. Un sistema a cilindri, riscaldati “da una corrente interna di vapore”, assicurava alla carta “senza fine” una perfetta asciugatura e il passaggio ulteriore fra due cilindri di acciaio dava alla carta una sorta di “lustratura” (la cosiddetta “carta cilindrata”).
La “carta continua” o “senza fine”, valse ai fratelli Cini, insieme ad altra e più tradizionale produzione, la medaglia d’oro alla Pubblica Esposizione dei prodotti di Arti e Manifatture Toscane svoltasi a Firenze per la prima volta nel 1838. 
L’introduzione della macchina a cilindri insieme ad altre novità che saranno via apportate all’arte cartaria (basta pensare alla pasta di cellulosa che soppianterà gli stracci; nella cartiera Cini ciò avverrà verso gli anni ottanta dell’Ottocento), segnerà lo spartiacque che nel mondo della bibliologia differenzia il libro antico da quello moderno.
Le fonti documentali a disposizione, disseminate in archivi pubblici e nell’archivio di San Marcello Pistoiese ricostruiscono l’attività imprenditoriale di ben quattro generazioni Cini che condussero la cartiera che fu a lungo luogo di attrazione di maestranze, lavoranti e le loro famiglie e che oggi rappresenta un’interessante testimonianza di archeologia industriale, un “monumento del lavoro” peraltro già oggetto di indagine e studio.