Ogni riflessione sul quadro giuridico dell’impresa agricola in Italia muove necessariamente dalla specifica disciplina di individuazione, qualificazione e regime, quale posta nel codice e nei decreti legislativi di orientamento. La lettura in chiave storico-comparativa e critica di questi materiali normativi rende manifesti gli elementi emergenti di novità, ed insieme le aporie e l’irrisolta perdurante distanza, tra quanto finalisticamente enunciato e quanto specificamente disciplinato, sul piano degli oggetti come dei soggetti.
E tuttavia, se il tempo presente è quello del policentrismo, della pluralità dei centri regolatori, ordinati secondo modelli distanti dalla limpida gerarchia delle fonti, e piuttosto idonei ad influire coevamente sugli stessi fatti di esperienza, secondo canoni funzionali di utilizzo assai più incerto di quelli gerarchici, occorre dire che l’impresa agricola in questi anni si è segnalata come tema di riscoperto e generale interesse, proprio perché – ancor più di altre aree di esperienza economica – rappresenta in modo esemplare l’intreccio fra pluralità di missioni, e pluralità di regole e di identità.
Del resto, ogni tentativo di regolazione e di riduzione ad unità ordinatrice (il «valore freddo della legge», come ha scritto in un suggestivo articolo Claudio Magris), siccome costruito attorno a definizioni che necessariamente involgono separazioni e cercano riduzioni ad elementi semplici (come hanno osservato gli studiosi del Ministero dell’Agricoltura francese in un noto rapporto sulla multifunzionalità dell’agricoltura), sconta un’intrinseca parzialità delle risposte, rispetto a questioni che per sé investono plurime aree di bisogni e plurimi comparti di disciplina.
Con specifico riferimento ai temi propri dell’impresa agricola, tre decisivi motori di regolazione sono attualmente all’opera nel ridefinire finalità, confini e regimi:
- un ordinamento europeo, nel quale i confini fra regole di produzione e regole di commercio sono sempre più sottili, e nel quale la tradizionale distinzione fra basi giuridiche in ragione di competenze di specifica attribuzione appare sempre meno rilevante, risultando piuttosto generalizzato a decisivo canone istituzionale quello del potere implicito;
- una pur breve stagione riformatrice in sede nazionale, che nell’arco di pochi anni (dal 2001 al 2004) ha visto ripetuti interventi sul versante dell’impresa agricola e delle attività a questa assegnate, dopo almeno due decenni in cui (acquisita la riforma dei patti agrari con la legge n.203 del 1982) la legislazione in agricoltura sembrava esaurirsi in pedissequa applicazione delle disposizioni comunitarie ovvero in posizione di minuti benefici difficilmente riducibili a sistema;
- il prepotente emergere di domande locali di regolazione anche d’impresa, nella duplice veste di una domanda di autoregolazione a base consensuale e pattizia, e di una crescente affermazione del soggetto Regione, sino alla riforma del Titolo V della Costituzione ed alla scomparsa della parola “agricoltura” dal testo (ma – sembra di poter dire – non dal contenuto) dell’art.117 della costituzione.
A questa dimensione, che ha portato ad un’espansione del modello di impresa agricola a comprendervi attività prima escluse, si è accompagnata un’espansione dell’area dell’agrarietà, anche fuori dai confini dell’impresa atomisticamente intesa. Da ciò l’esperienza della distrettualità in agricoltura, anche sul versante giuridico, oltre che economico e sociale.
(L’articolo è un abstract della 1° parte della relazione svolta dal Prof. Albisinni, nel corso della giornata di studio su: “Le nuove missioni dell’impresa agraria”)
articolo PDF