Gli avvenimenti dell’ultimo anno riguardanti l’Olio di Palma (OP) sono forse un caso più unico che raro nella storia del cibo, perché per la prima volta il flusso decisionale sembra del tutto invertito rispetto a quello usuale.
Per l’OP, le multinazionali alimentari e la stessa grande distribuzione organizzata (GDO) hanno ricevuto dal basso, ovvero dai consumatori, una fortissima pressione perché un ingrediente diffuso come l’OP fosse bandito dai prodotti finiti e addirittura tutti i possibili prodotti trasformati che lo vedono utilizzato come ingrediente ritirati dagli scaffali della GDO.
L’OP è un antico grasso di origine vegetale prodotto a partire dal frutto della palma, come nel caso dell’olio extravergine d’oliva, da non confondere con l’olio di palmisto che invece si produce a partire dai semi di palma che è di qualità molto più scadente e che contiene fino all’82% di acidi grassi saturi. L’acido grasso predominante nell’OP è l’acido palmitico, presente tra il 39,5% e il 47,5 % su un totale complessivo di grassi saturi pari a circa il 55%.
Le quantità di acidi grassi saturi sono paragonabili a quelli del burro, dove però è presente circa il 50% in meno di acido palmitico che è invece considerato il più pericoloso perché favorisce la biosintesi del colesterolo e la formazione delle conseguenti placche aterosclerotiche.
Storicamente l’OP è stato introdotto dalle aziende alimentari per sostituire gli acidi grassi idrogenati e soprattutto per non introdurre gli indesiderati acidi grassi trans che vanno evitati il più possibile nella dieta e di cui esistono dei limiti di accettabilità negli USA o per l’Europa ad esempio in Danimarca con un valore massimo del 2% nel prodotto finito.
I nutrizionisti considerano accettabile, in una dieta equilibrata e varia e per una popolazione media e generale, una quota di grassi saturi tale da essere inferiore al 10% del totale delle calorie giornaliere introdotte.
Questo valore del 10% nasce dalla somma di grassi saturi di origine animale (latte, uova, insaccati, formaggi etc.) e dai prodotti trasformati che contengono fra gli altri anche l’OP come ingrediente.
L’OP è oramai un ingrediente alimentare onnipresente nei prodotti trasformati (biscotti, zuppe, merendine, etc.) per vari motivi fra cui ragioni tecnologiche, di palatabilità, perché può prolungare la vita di scaffale del prodotto etc.
I dati di consumo raccolti da vari organi istituzionali dimostrano che la quota giornaliera di grassi saturi introdotta dagli adulti rispetta questo valore soglia del 10%; il problema assume un significato e un rischio diverso se consideriamo i più piccoli dove vi è un eccesso di acidi grassi saturi, si arriva fino al 18%, soprattutto per la maggiore quota di acido palmitico spesso derivante dall’OP presente.
I grassi vegetali nel passato erano indicati nell’etichetta alimentare come somma totale senza specificarne l’esatta composizione. Con l'entrata in vigore del Regolamento UE 1169/2011, dal 2015 è obbligatorio indicare in chiaro, nelle etichette dei prodotti alimentari prodotti nell'Unione Europea, la specifica origine di oli e grassi vegetali e, di conseguenza, dichiarare l'utilizzo anche dell'olio di palma, ma ancora non vanno indicate le quantità relative presenti.
L’OP grezzo non può essere utilizzato tal quale, pur essendo ricco di carotenoidi, vitamine, Coenzima Q etc., ma occorre raffinarlo, deodorarlo, decolorarlo etc. con un processo che è di solito applicato con poche modifiche a quasi tutti i grassi vegetali. Tecnologicamente il processo di raffinazione dell’OP, come di altri grassi vegetali, induce la formazione di una serie di contaminanti di processo tra i quali si evidenziano il 3-MCPD, il 2-MCPD e gli esteri del glicidolo.
Il Regolamento EU 1881/2006 prevedeva un limite di 20 ug/Kg di 3-MCPD nella sua solo forma libera e lo limitava solo nella salsa di soia con un valore di Dose Tollerabile Giornaliera (TDI) di 2 ug per Kg di peso corporeo al giorno. Sorprendentemente non erano compresi in questo regolamento né il 2-MCPD né il glicidolo.
Nel maggio 2016 l’EFSA pubblica un parere (
doi: 10.2903/j.efsa.2016.4426) che ha soprattutto, come principale prescrizione, ridotto la TDI del 3-MCPD del 60%; questo parere innesca immediatamente una serie di successive reazioni a cascata. Infatti, numerose aziende hanno deciso in autotutela di ridurre o anche di eliminare del tutto l’ingrediente OP dai propri prodotti introducendo altri grassi fra i quali l’olio di girasole arricchito in acido oleico.
L’eliminazione dell’OP dai prodotti trasformati a causa delle quantità di acidi grassi saturi e dell’acido palmitico in particolare, non è sufficiente a giustificare tale scelta perché i consumi, come detto prima, di acidi grassi saturi nella popolazione adulta sono mediamente inferiori alla soglia del 10% delle calorie giornaliere, inoltre i grassi saturi per loro natura riducono i fenomeni di irrancidimento, danno delle peculiari proprietà organolettiche e sensoriali, rendono più palatabile il prodotto finito e quindi più apprezzato dai consumatori.
Il problema dei grassi saturi semmai risiede nelle popolazioni infantili e nei bambini laddove la quota di saturi è molto elevata e l’introduzione di acido palmitico è forse eccessiva perché è eccessivo il consumo di alimenti come snack, merendine etc.
Negli USA per ridurre la quota di grassi saturi consumati, al contrario dell’Europa, si è andati nella direzione di aumentare la quota di zuccheri, specie quelli semplici con relativi problemi di diabete e di obesità.
L’altro aspetto di cui è accusato l’OP è la presenza di contaminanti di processo (3- e 2-MCPD e il glicidolo), questo è un aspetto di sicurezza comune a numerosi grassi vegetali da utilizzare come ingredienti alimentari perché quasi tutti subiscono il processo di raffinazione di cui abbiamo già parlato, processo che è alla fonte dei contaminanti.
Occorre aggiungere anche che gli attuali processi di trasformazione, confrontando i livelli finali di questi contaminanti nei vari grassi vegetali raffinati, non li differenziano in modo netto per la loro pericolosità verso la salute dei consumatori. Questo permette di concludere che per questo aspetto un olio vegetale raffinato può valere l’altro.
In conclusione, la scelta di eliminare a “furor di popolo” l’olio di palma come ingrediente, perchè ricco in acidi grassi saturi e perché ha un elevato contenuto di contaminanti di processo, non è ancora sostanziata in maniera certa e scientificamente solida; quantomeno occorre ampliare il discorso considerando l’eccessiva quantità di acidi grassi saturi introdotti con la dieta in generale, svincolandosi dal tipo di grasso di partenza, presenti nei prodotti finiti e che per le fasce più piccole di consumatori può rappresentare un serio rischio per la loro salute.
Se invece la criticità risiede nella presenza dei contaminanti di processo, allora è il processo da migliorare e ulteriormente da ottimizzare permettendo un maggiore abbattimento di questi contaminanti indesiderati in qualunque delle matrici grasse quando è applicato tale processo di trasformazione e dai recenti dati di sorveglianza sugli MCPD fatta sui latti di proseguimento il percorso sembra ancora lungo.
Occorre fare degli approfondimenti tecnologici, sensoriali, analitici, clinici, tossicologici e ambientali per valutare il reale rischio a cui sono esposti i consumatori, specie i più piccoli, per la loro salute e individuare le strategie di contenimento di questi pericoli per ridurre il rischio complessivo.
In questa rapida e non di certo esaustiva esposizione, non sono stati discussi due ulteriori criticità che si associano all’OP: l’impatto ambientale per la sua produzione a costi concorrenziali rispetto ad altri grassi vegetali e gli aspetti sia macroeconomici, valore dell’export per alcune nazioni come Malesia e Indonesia, che microeconomici correlati ai costi finali del prodotto in cui l’OP è presente come ingrediente.