La “Fabrica” delle palme
Dario Casati
La piazza del Duomo di Milano, per chi non la conoscesse, è una piazza molto ampia, di forma circa rettangolare, tipicamente italiana: su uno dei lati corti è chiusa dalla facciata del Duomo, sul lato lungo a sud vi è l’arcivescovado seguito dal Palazzo Reale e dall’ arengario d’epoca fascista. Il resto è contornato da palazzi ottocenteschi. Sul lato corto opposto presenta un monumento equestre a Vittorio Emanuele II. La Cattedrale fu eretta in stile tardo gotico a partire dalla seconda metà del 1300 sul modello delle grandi cattedrali europee, ma con un ritardo di un paio di secoli e senza facciata. Con una stonatura stilistica il problema fu risolto con quella imposta dal decisionismo di Napoleone, ma la piazza è in attesa del suo definitivo assetto. La lunghezza dei tempi è riassunta dal detto “la Fabrica del Domm” per indicare un’opera che non è mai finita. Probabilmente rimarrà un immenso lastricato che con dignità raduna cittadini, turisti, grandi eventi e feste in piazza.
All’improvviso a metà febbraio presso il monumento è spuntato un boschetto di palme, anticipatore dell’arrivo di banani e di cespugli e fiori autoctoni ed esotici per garantire una continua fioritura. Il tutto sponsorizzato da una marca mondiale di caffè che sbarcherà a Milano e in Italia nel 2018 e che si accolla costi e gestione per un triennio. La sorpresa delle palme ha scatenato un dibattito intenso, vivace, spesso ironico, con un aggancio forte alle polemiche sui migranti e quindi subito preda della vis politica.
La questione è compito di arboricoltori, architetti del verde e del paesaggio, urbanisti e critici dell’arte. In quanto georgofilo, economista agrario e cittadino milanese mi permetto solo qualche considerazione che propongo.
Le palme ora ambientate, di cui queste pare facciano parte, si sono diffuse nell’800, nei giardini delle ville dei Laghi e in quelli delle dimore delle grandi famiglie ed erano associate ad altri sempreverdi come tasso, bosso e conifere ornamentali. Era l’epoca dell’interesse all’esotico e l’800 ne ha fatto grande uso, creando giardini belli, ma cupi per il loro verde intenso e il senso greve di umidità che li pervade. L’introduzione di specie esotiche comporta problemi di fotoperiodo, di temperature, di umidità e distribuzione delle precipitazioni che con una certa fatica si sono superati. Allora ci si interessava meno dell’arrivo di avversità aliene, al contrario di quanto avviene oggi, dopo la Xylella e il Punteruolo rosso. L’uso di queste specie si collega all’interesse dell’800 per piante ed animali esotici da mostrare a chi non li conosceva. Obiettivo superato dalla facilità delle comunicazioni tanto che gli zoo sono stati chiusi e Milano non lo ha più. Dunque non si capisce perché portare in piazza ed esibire una specie aliena senza un apparente motivo. La grande piazza dei milanesi non ha bisogno di ciò. Se vogliamo riportare un po’ di verde, un intervento più coerente sarebbe stato meglio.
Lo sponsor è benvenuto ed ha già vinto: tutti ne parlano. Ma ha voluto portare il “meraviglioso” in una città che non vi trova la sua anima, si sente violata. Può reggere i grattacieli appena costruiti, ma non il giardinetto con palme e banani. Lo immagini, lo guardi e lo senti falso, una forzatura di quella natura che vorrebbe esaltare, come con i grattacieli col giardino verticale. La terra su cui allevare piante e fiori ornamentali o alimentari è un’altra cosa. In queste realizzazioni troppo cerebrali si avverte prevalente il supporto dell’artificialità. E allora Milano si scopre ferita. Che cosa diremmo di siepi e filari di Pino mugo o di abeti al Cairo o a Marrakesh?
Milano, insieme a Monza, ha il più grande Parco cintato d’Europa e storici Parchi urbani progettati e costruiti fra ‘700 e ‘800, armonici e coerenti con il contesto ambientale e architettonico. Perché non rifarsi a quella lezione? Certo, come fa un agricoltore nostalgico reduce dall’Africa è possibile coltivare caffè ottimo a Milano, ma con costi sbalorditivi e in condizioni innaturali. Lo stesso vale per il verde ornamentale. Meglio mettere a bando una più accurata gestione dei Parchi con il loro recupero storico. Meno appariscente per lo sponsor, forse, ma di maggiore coerenza logica e stilistica con la città.
In questa contesa fra stile e pubblicità, questa volta vince la pubblicità e perde Milano.
Troppo rumore per nulla
Francesco Mati
Ascolto in questi giorni dialoghi infiammati sull’intervento di Buy in piazza del Duomo a Milano. Un’aiuola temporanea di palme e banani ornamentali sponsorizzata da un marchio americano di caffetterie.
Chi grida allo scandalo perché si dovrebbero piantare piante “autoctone”, chi grida che è frutto di anni di “invasioni barbariche”, chi avrebbe fatto diversamente e chi sorride. Mi vorrei concentrare su quest’ultimo soggetto. Immagino il responsabile del marketing della caffetteria che sta ridendo di gusto di fronte al fatto che tutti ne parlano, un effetto di ridondanza della pubblicità di grande valore per il suo operato.
Vorrei che tutto il clamore suscitato dall’opinione pubblica per le palme venisse dedicato alle preoccupanti condizioni in cui versa il verde pubblico in Italia: alberi “macellati” da potatori della domenica, giardini pubblici progettati da chi non ha mai avuto un giardino, verde scolastico assente, ecc.
Purtroppo viviamo in un paese dove la professionalità derivante a volte da anni di studi e da altrettanti di esperienza viene invalidata dai commenti di “esperti” che pontificano su tutto e tutti. Oggi pochi fanno e troppi criticano, sulla base di questo qualunque scelta, sia appropriata che di provocazione, verrà sempre e comunque criticata. Così come, grazie a questa diffusione di esperti a oltranza, diventa sempre più difficile comprendere cos’è bello. Il significato di bellezza è stato talmente frammentato, usato a sproposito e demolito da risultare impossibile, oggi, poterlo definire. Quindi non dirò se le palme in Piazza del Duomo a Milano sono giuste o sbagliate perché risulta impossibile criticare o commentare un’operazione di marketing temporaneo.